Vampire in the Garden: recensione dell’anime Netflix
La regina dei vampiri Fine e una ragazza umana di nome Momo fuggono assieme alla ricerca di un luogo in cui possano trionfare finalmente la pace e il rispetto reciproco.
Possono umani e vampiri convivere pacificamente? È la domanda fondamentale che si pongono Momo e Fine, protagoniste assolute della miniserie animata in 5 episodi Vampire in the Garden, su Netflix dal 16 maggio (e visibile anche su Sky Q e tramite app su NOW Smart Stick). “Sangue caldo” (ovvero essere umano) la prima e creatura mostruosa la seconda, si muovono in un mondo post-apocalittico totalmente votato alla guerra e alla sopraffazione.
Il rovesciamento, che rende particolarmente interessante l’incipit della storia, vede i vampiri già al comando, alla continua caccia delle ultime tracce di vita sparsa sulla Terra sia per una questione di sopravvivenza che per giungere alla definitiva distruzione del nemico. Momo e Fine, però, sono genuinamente interessate a una nuova via, che nessuno sembra prendere in considerazione: la pace, rappresentata dalla “scandalosa” possibilità della coesistenza.
Vampire in the Garden: alla ricerca di un Paradiso
Inevitabilmente, è difficile inquadrare la vicenda – creata dal Wit Studio, e diretta per tutte le puntate da Ryotaro Makihara – solo per come appare, senza darle una connotazione fortemente metaforica. Qui si parla infatti di come l’umanità sia perennemente portata al massacro reciproco, alimentata da una furia cieca che può essere di matrice politica, sociale, culturale. Anche per questo Vampire in the Garden non nasconde affatto la sua natura da fantasy dark, con svariate sequenze di battaglia cruente che non risparmiano la visione del sangue e della sofferenza sui volti dei personaggi.
Fermarsi a questo primo “epidermico” livello sarebbe però un enorme peccato: questa web anime – in una durata complessiva relativamente stringata, non si superano le due ore e mezza totali – spazia dal romanzo di formazione all’on the road, toccando anche il romanticismo e il sentimentalismo. Sentimenti e sensazioni sono parte integrante del cammino di Momo e Fine, nonostante tutto, nonostante il Paradiso agognato sembri solo una chimera e nonostante chiunque cerchi di separarle in quanto apparentemente inconciliabili.
Momo e Fine, in fuga dal mondo (e da loro stesse)
Questa, quindi, non è la solita e tipica storia di vampiri. Vampire in the Garden (già persino dal titolo, che in modo quasi ossimorico avvicina due termini che rimandano a opposte percezioni) rifiuta in modo molto intelligente di affidarsi ai risaputi topoi del genere fantastico. La fiducia è il motore principale che spinge Momo e Fine a unirsi e ad agire, e a colpire dritto al cuore non è tanto lo scenario post-distopico quanto la capacità delle due (anti)eroine di isolarsi mentre tutt’intorno infuria la catastrofe. Ognuna delle due insegna qualcosa all’altra, in uno scambio costruttivo per entrambe.
Solo con il confronto è possibile maturare e crescere, imparando. Un’opzione preclusa alla stragrande maggioranza degli altri succhiasangue e degli altri umani (compresa la madre di Momo, disposta persino a sacrificare la figlia in nome di un ideale di sopraffazione), sempre ottusi nelle loro convinzioni e incapaci di dialogare. E, dunque, umani e vampiri possono vivere assieme, in armonia? Alla fine (no spoiler!) Vampire in the Garden una risposta la dà, più che nel finale nella tanto breve quanto intensa scena post credits. Tenendo accesa la fiamma della speranza, tutto è possibile; senza di essa, non siamo altro che bestie sanguinarie.