Vikings – Stagione 6 Parte 2: recensione del finale della serie
Un finale che purtroppo delude. Ecco la nostra recensione della seconda parte di Vikings 6.
C’erano grandi speranze per questo finale di Vikings, per chi sperava di salutare come si conveniva una serie storica tra le migliori di sempre, che però da almeno un paio di anni, era calata di qualità in modo alquanto sensibile.
Le avventure di Ragnar, Lagertha, Rollo, Loki e del resto della comunità di Kattegat, quel viaggio dentro un’epoca semi-sconosciuta ma affascinante per il pubblico generalista, erano diventato ormai noiose e stantie, lontane parenti di ciò che avevamo conosciuto.
Battaglie e scontri realistici, una scrittura che sapeva far legare ai personaggi, appassionare, renderci partecipi dei mille viaggi, scoperte, alleanze e tradimenti in quel Nord freddo e selvaggio.
Ma con la morte di Ragnar, Vikings è diventata sempre più spenta, monotona, priva di energia e di bellezza. Capita, lo abbiamo visto succedere altre volte, eppure ad ogni episodio, speravamo vi fosse una riscossa, un ritorno ai bei tempi.
Vikings finisce senza cambiare le fallimentari scelte narrative precedenti
Parlare di quest’ultima stagione, di questa seconda parte della sesta (perché non chiamarla settima? Vabbè) vuol dire semplicemente prender atto del fallimento da parte di Micheal Hirst, incapace di sostituire i vecchi personaggi con i nuovi, così come di dare una giusta fine a quelli che erano rimasti dall’iter precedente. Vikings l’ultima volta che era veramente eccellente, è stato nella quarta stagione.
Solo l’Ivar del bravissimo Alex Hogh Andersen è riuscito a compensare alcuni difetti, ma dopo due stagioni, è diventato pian piano una sorta di parodia di se stesso.
Chi sperava in un finale degno per gli ultimi figli di Ragnar, rimarrà quantomeno deluso. Poche battaglie, quella finale non è poi superiore alle altre, tanta mestizia, così come un cedere pian piano e senza senso, al potically correct.
In questa parte finale, Ivar è alle prese con un dilemma: se continuare a servire l’imprevedibile Oleg di Kiev, oppure sposare la causa del più mite Dir, proteggendo il giovane Igor, mentre Hvisterk si mostra sempre più indocile. Ubbe continua il suo viaggiare per mare alla ricerca della fantastica terra narratagli da Othere, mentre i coloni cominciano a distruggersi l’un l’altro.
Intanto, a Kattegat, Bjorn cercherà il suo destino, lasciando aperta la strada ad uno scontro per il potere tra i norreni dall’esito imprevedibile, grazie ad alcuni ritorni improvvisi e colpi di scena.
Una narrazione eccessivamente incentrata sulla dimensione spirituale
Questo finale, ha lo stesso difetto che avevamo trovato nella quinta e soprattutto prima parte della sesta di Vikings: un’indagine psicologica davvero troppo pesante e ripetitiva. L’elemento religioso diventa quasi opprimente anche in questa ultima parte, i personaggi sono in preda a visioni mistiche, si arrovellano sulla volontà degli Dei o di Dio, appaiono totalmente privi di quella spinta autodeterminata che aveva reso personaggi come Ragnar o Rollo, davvero seducenti.
I rapporti umani sono semplificati, anzi banalizzati, i dialoghi sono pomposi e vuoti, quasi infantili nel momento in cui dovrebbero andare verso l’epica ed in generale, mancano anche controparti femminili all’altezza. Lucy Martin, Alicia Agneson, Ragga Ragnars, non reggono assolutamente il confronto con chi le ha precedute, ma questo, ancora una volta, è un problema legato ad Hirst, alla sua scrittura che anno dopo anno è diventata sempre più pigra e svogliata.
I personaggi di Vikings in questi anni sono diventati sempre più monotoni
Non va meglio alla parte maschile. L’Oleg di Novgorod di Danila Kozlosky, prometteva bene, ma in ultima analisi si rivela un personaggio prevedibile, quanto inutilmente sopra le righe, e tutta la parte narrativa ambientata tra i suoi Rus, una sbiadita copia di ciò che avevamo già visto.
Nulla che possa essere messo a paragone con il fantastico Re Ecbert di Linus Roache o l’Horik di Donal Logue. Dove vi era imprevedibilità ed intrigo, vi sono monologhi insipidi, triangoli amorosi prevedibili, e il viso smunto e poco convincente di Marco Islo e del suo Hvitserk.
I figli di Ragnar, ad eccezione di Ivar, non escono bene da queste ultime stagioni di Vikings. Jordan Patrick Smith e il suo Ubbe vengono sacrificati in una sorta di iter messianico, dove vedere l’ex Tito Pullo Ray Stevenson ridotto a fare il San Francesco, lui cosa carismatico e virile, spezza ancor di più il cuore.
Alexander Ludwig insegue un epilogo glorioso e un po’ di phatos, ma di base il suo Bjorn è sempre stato sviluppato molto male, la presenza scenica del biondone canadese ha sempre lasciato a desiderare.
Cosa rimane di Vikings? La prova di quanto sia importante capire dove si sta andando a parare, di quanto serva più che un giusto casting, un’idea con cui utilizzare attori ed interpreti, e che un solo autore, per quanto bravo non ce la può fare.
Questa seconda parte della sesta è brutta quanto la prima, senza idee, senza phatos, senza nulla di nuovo da dare. Peccato. Finché è durata, era qualcosa di unico, qualcosa che abbracciava un realismo non solo di facciata, ma un regno della mente degli uomini che credevano nel Valhalla, negli Dei, nell’onore e nella vendetta. E con alcuni personaggi femminili che a quelli di Hollywood e dei suoi blockbuster passavano sopra come le navi sul mare.
La seconda parte di Viking 6 è disponibile su Amazon Prime Video.