Voir: recensione della docuserie Netflix firmata David Fincher
Voir è una docuserie antologica che, attraverso il contributo di critici cinematografici poco noti al grande pubblico ma di grande competenza, riflette attorno ad alcuni temi d'interesse prettamente cinefilo, al limite di un ossimorico nerdismo senza passione.
Con Voir Netflix sembra aver blindato David Fincher, già produttore esecutivo di Mindhunter – di cui i fan aspettano sì con trepidazione ma anche con speranza affievolita, la terza stagione – e regista di Mank, grande successo dello scorso anno: ecco che, insieme a David Prior, lo ritroviamo sulla piattaforma streaming californiana con una nuova produzione.
Si tratta di Voir, una docuserie antologica articolata in sei episodi di breve durata in cui i critici cinematografici Walter Chaw, Drew McWeeny, Taylor Ramos, Sasha Stone, Glen Keane e Tony Zhou, senz’altro poco conosciuti al grande pubblico ma di grande competenza, riflettono, a partire da alcuni esempi cinematografici, su temi circoscritti, di interesse prettamente cinefilo: il ruolo spartiacque de Lo squalo di Spielberg nell’affermazione del Blockbuster estivo; il significato della vendetta, tra rabbia e redenzione, in Lady Vendetta; il fascino di un protagonista respingente in Lawrence d’Arabia; la rappresentazione del femminile nel cinema d’animazione; il cambiamento introdotto dal digitale nel rapporto tra piccolo e grande schermo; la questione della relazione interrazziale in film come 48 ore di Walter Hill.
Voir: cosa significa vedere e cosa si vede quando si guarda un film?
A pochi secondi dall’inizio del primo episodio di Voir – L’estate dello squalo, scritto da Sasha Stone – compare un occhio, la cui iride variamente pigmentata ingloba frame di film in bianco e nero: l’immagine sembra preludere a una meditazione intorno all’atto del vedere, alla passività di ricevere stimoli visivi.
Vedere significa percepire con gli occhi, una facoltà su cui non esercitiamo controllo e che, a differenza del guardare, non implica la scelta di indugiare, di soffermarci su qualche immagine per scomporla e, così, comprenderla meglio. Gli occhi svolgono la funzione di accogliere e di consegnare al cervello che poi rielabora più compiutamente: il loro ruolo è, dunque, immediato, nel senso di non mediato. In quell’accoglimento senza mediazione si rivela, spesso, l’inconscio: quel che ci colpisce, infatti, ci colpisce per ragioni che non sappiamo spiegare, ma che ci dicono di noi più di quanto non sospettiamo.
Voir, a dispetto del titolo, non sembra affatto occuparsi del vedere quanto dell’analizzare, dello smontare, pezzettino per pezzettino, un film per approfondirne arbitrariamente una tematica: è in tutto e per tutto una docuserie (de)costruita per piccoli saggi, dal respiro corto proprio perché pensata per addetti ai lavori, proprio perché segmentata e ‘segmentizzante’.
In questo contraddittorio nerdismo senza passione – o di una passione raffreddata nel feticismo – si perde l’occasione di una rivelazione: i dotti critici cinematografici intervenuti nei diversi episodi si concentrano sugli ingranaggi del film, ma dicono poco di cosa vedere quel film significhi, di quali ingranaggi interni allo spettatore abbia richiamato, propiziando l’estasi un po’ scioccante di vedersi visti dal film, non soltanto di vederlo.
Voir: una docuserie sul vedere paradossalmente fuori fuoco
Godere del fare o del guardare un film è solleticare un voyeurismo latente, e appunto riguarda sia il regista sia lo spettatore: chi realizza un’opera cinematografica lo fa non solo per raccontare una storia, per un’esigenza per così dire narrativa, ma anche per trattenere ciò che vede, per ribellarsi alla passività di fronte a una visione, per eternarla in qualche modo; chi si trova nella posizione di spettatore, invece, vuole vedere, non accontentandosi di leggere o ascoltare. Ricerca una concretizzazione visiva di un oggetto immaginato o immaginabile e si bea del vedere, quale prodromo di un secondo tempo d’analisi e comprensione.
Eppure, un film riesce davvero soltanto quando, a quest’ultima soddisfazione, se ne aggiunge un’altra: quella di sapersi non solo soggetto, ma anche oggetto di una visione. E allora, proprio per questo, non si comprende bene quale sia il centro di Voir, che cosa voglia fare dei contributi dei critici cinematografici di cui si avvale né di preciso chi sia l’audience a cui vuole parlare. Ma quel che è peggio è che non è chiaro neanche ciò di cui intende parlare: sicuramente non del vedere.