Yellowjackets – stagione 2: recensione dei primi episodi su Paramount+
La seconda stagione di Yellowjackets mantiene integra l'identità dello show, ma esordisce in modo fin troppo fiacco
Nelle sperdute lande desolate dell’Ontario il male si annida silente, famelico e paziente. Come un serpente nascosto tra le foglie, prende le misure delle proprie prede, contaminandone l’animo lentamente. Vittime, non così innocenti, di tale gioco sono un gruppo di ragazze atterrate in quel luogo nel quale il male dimora. Non si sa se per pura casualità, per un crudele scherzo del destino o perché attratte da una forza superiore, mistica, ancestrale. È su queste basi che Yellowjackets delinea il proprio racconto fin dalla prima stagione, arricchendo la storia in questa nuova annata.
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Le suggestioni de Il signore delle mosche di William Golding ritornano qui preponderanti, incontrando ancora una volta quelle di Lost, antesignano della narrativa televisiva contemporanea. Il male è insito nella natura umana, lo ripudiamo ma ne siamo attratti. Yellowjackets sembra abbracciare tale argomentazione, spingendo tuttavia su un possibile intervento esterno, altresì metafora e personificazione dell’animo sfiancato e corrotto. Presente e passato si susseguono, si intrecciano indissolubilmente. Il montaggio ci porta negli anni ’90 e quasi senza stacco ai giorni nostri. La frenesia sembra farla da padrone, a braccetto con l’abbondanza.
La serie fa un uso sproporzionato di personaggi, a loro volta scissi tra il loro vissuto adolescenziale e quello adulto. Lo spettatore deve svolgere un notevole sforzo nel tenere insieme i vari fili, le varie storyline che, in alcuni casi, non sono ben collegate. Ne è un esempio quella di Shauna (Melanie Lynskey/Sophie Nélisse), le cui vicissitudini sono tuttora le più riuscite. È con rammarico, invece, che constatiamo un certo abbandono al sadico magnetismo della Misty di Christina Ricci, messa in secondo piano dall’arrivo della Lottie adulta interpretata da Simone Kessell. Detto ciò, lo show mantiene comunque la sua forza intrattenitrice, per quanto in maniera nettamente diluita.
Le sfide della sopravvivenza e l’ombra di un passato ingombrante
Nel passato le ragazze e i ragazzi devono fare i conti con l’inverno, la scarsità di cibo e i deliri messianici di Lottie. Dopo gli avvenimenti della prima stagione, la ragazza acquista maggior rilevanza e potere all’interno del gruppo. Sembra vestire i panni di una sacerdotessa e dotata quindi di poteri curativi. Dall’altra parte troviamo invece Shauna alle prese con la morte della migliore amica, Jackie. Taissa deve fare i conti con problemi notturni e Natalie insieme a Travis con la scomparsa di Javi. Le montagne, la foresta e la capanna diventano così un luogo di spiriti e rancori accentuati dalla fame. Un luogo di morte, nel quale si annida l’ombra del cannibalismo.
Yellowjackets sposta le ripercussioni di tali avvenimenti nel presente, dove le sopravvissute devono fare i conti con scelte estreme e traumi. Shauna e il marito Jeff nascondono le prove dell’omicidio di Adam, amante della donna, mentre la loro figlia indaga su quanto di misterioso stia accadendo alla sua famiglia. Taissa, neoeletta senatrice, combatte con le crisi notturni che hanno portato all’allontanamento della moglie e del figlio. Nel primo episodio, invece, scopriamo cosa sia successo a Natalie (Juliette Lewis), rapita da una Lottie ora a capo di una setta. Misty prosegue ciò che le riesce meglio, essere sé stessa, e a lei si affiancherà un nuovo e misterioso personaggio interpretato da Elijah Wood.
Molta è la carne messa sul fuoco da Ashley Lule e Bart Nickerson, ideatori della serie. Come dicevamo, infatti, i primi due episodi presentano una certa frettolosità nel portare avanti il racconto. Ciò è dovuto dalla quantità di storyline, ma alla lunga sembra appesantire la visione, lasciando così poco spazio all’introspezione dei personaggi. Nel particolare, la prima puntata della seconda stagione, non sembra tale, ma un semplice episodio di transizione. Siamo felici di tornare su questo palcoscenico, tuttavia ne usciamo fuori discretamente frastornati. Non solo, Yellowjackets, sembra perdere il focus. Cosa ci vuole raccontare? La caduta nel cannibalismo? Le ripercussioni dei gesti estremi compiuti in nome della sopravvivenza, la presenza di un male soprannaturale o tutto quanto? Non abbiamo ancora una risposta, le strade sono molteplici e speriamo portino ad un’unica meta.
La punta di diamante di Yellowjackets, la recitazione
La punta di diamante dello show rimane ancora la recitazione. Viaggiamo ad alti livelli, e in alcuni casi le giovani star si presentano più affascinanti delle controparti adulte. È il caso di Lottie che, negli anni ’90, viene interpretata da Courtney Eaton. Quest’ultima svolge un ottimo lavoro nell’ammantare il proprio personaggio di un’aura inquietante e sinistra, ma anche innocente e gentile. A differenza di Simone Kessell, fin troppo stereotipa nei panni della santona. Eppure, se l’intero cast svolge egregiamente il proprio lavoro, non si può dire altrettanto del resto.
La prima stagione di Yellowjackets ci aveva sorpreso per la sua commistione di generi e influenze, da quelle citate precedentemente a molte altre. La vena di mistero, horror e thriller dava allo show una notevole brillantezza che qui sembra essersi sbiadita. Gli avvenimenti più succulenti vengono trattati alla stregua di quelli semplici: in modo banale. Ciò che manca è la tensione, anche quando ci troviamo nell’innevata desolazione canadese. Non avvertiamo mai il senso del pericolo, della paura. Tutto ci passa davanti con facilità, veloce, in un mordi e fuggi senza sapore. Siamo però combattuti, infatti il nostro non è solo un giudizio negativo, in quanto fortemente combattuti da una certa ambiguità della narrazione.
Parliamo infatti di quegli elementi che mantengono la serie a degli standard più alti rispetto a molte altre. Piccole chicche vengono disseminate come Pollicino lungo il percorso. Attimi di stasi si alternano a scene suggestive e d’impatto, purtroppo non quella scena. Quella tanto attesa. Un momento che avrebbe richiesto maggior attenzione, più crudeltà e sadismo nel rappresentarla. L’horror, qui, sarebbe dovuto essere accolto in pompa magna, ma così non è stato. Siamo solo all’inizio e speriamo quindi che quanto di negativo visto fino ad ora trovi uno scopo all’interno della grande trama di Yellowjackets, perché molto deve essere ancora svelato. Ricordiamo che in totale sono previste ben cinque stagioni, a nostro avviso fin troppe. Perché, come sappiamo, quando show di questo genere la tirano così per lunghe non finisce mai bene.
Yellowjackets 2: conclusione e valutazione
L’esordio della seconda stagione si è dimostrato fiacco, una versione sbiadita e annacquata della precedente. Tuttavia, Yellowjackets sembra mantenere comunque alta l’asticella, se paragonata a serie simili, pensiamo alla sfortuna The Wilds o Tredici. Il cast rimane la forza trainante del prodotto, il quale personificano il trauma di un’esperienza estrema, le conseguenze di una malattia mentale non seguita o curata in modi crudeli e barbarici non più in uso. La storia ci parla di donne e del mondo attraverso i loro occhi. Vediamo il maschilismo della società, i normali problemi adolescenziali, con le sue pulsioni, la sua bellezza e i suoi difetti. Yellowjackets è un concentrato di tutto questo e anche di più. Pone domande allo spettatore, gioco con lui come il gatto con il topo. Esiste una vera presenza soprannaturale o essa è solo la manifestazione di una psicosi di massa? I simboli nella casa sono dei semplici MacGuffin oppure no?
Insomma, la serie conduce i propri misteri in modo intelligente, ma il problema è il fruire della narrazione a tratti fin troppo comedy-normativa. Ci aspettiamo che nei prossimi episodi Yellowjackets rimanga meno in tali lidi, trovi la grinta e si faccia senza problemi più spietata, più cannibale.