Venezia 76 – 45 Seconds of Laughter: recensione
Recensione del documentario di Tim Robbins, 45 Seconds of Laughter, incentrato sulla riabilitazione di detenuti mediante un programma teatrale.
Come può un ambiente come il carcere trasformare i detenuti nuovamente in esseri umani in grado di lasciarsi andare alle proprie emozioni, senza timore di apparire deboli, o meno uomini, machi, davanti ai loro compagni di cella? Attraverso il teatro e, precisamente, tramite la compagnia teatrale sperimentale di Tim Robbins, nota come The Actor’s Gang. Regista, attore, e sceneggiatore, Robbins, propone un programma di riabilitazione per i carcerati, i quali, nelle prigioni statunitensi sono spesso figure dimenticate, emarginate, e senza speranza di “redenzione”. Il frutto di questo progetto è 45 Seconds of Laughter, documentario nato dagli incontri al laboratorio teatrale a cui questi uomini – di etnie diverse e, un tempo, anche di gang rivali – hanno partecipato.
45 Seconds of Laughter offre una possibilità di “redenzione” e riabilitazione a un gruppo di detenuti
“Una disumanizzazione dei detenuti prodotta da un approccio punitivo nel sistema carcerario statunitense” è ciò che viene condannato, naturalmente non in modo esplicito, dal regista nel documentario, dando, invece, la possibilità ai detenuti di riscoprire la loro vera identità, e soprattutto il loro Io più profondo, senza aver paura dei giudizi di altri, delle impressioni, dei commenti e delle apparenze. The Actor’s Gang è un progetto attuato da Robbins già da circa 13 anni, quando, avendo notato che le persone in cella non erano realmente brutali e animalesche come apparivano nei prodotti mediatici (film, serie tv ecc.), decise di “riabilitarli” attraverso l’arte.
In questa avventura Robbins non è solo, ma accompagnato da alcuni coach che, nel corso del programma e del laboratorio, arrivano a instaurare un rapporto coi detenuti, tale da riuscire a spezzare la loro corazza e mostrare chi siano realmente. Prima che i protagonisti possano aprirsi, c’è bisogno di una grande dose di fiducia, senza la quale è impossibile portare a termine l’obiettivo stesso del laboratorio. La strada da compiere per giungere all’interpretazione di alcuni personaggi della Commedia dell’Arte è lunga e, prima di arrivare a quella fase particolare, i detenuti devono entrare in sintonia col proprio corpo e le proprie emozioni e sensazioni, riscoprendole.
45 Seconds of Laughter abbatte le pregresse barriere razziali tra detenuti e si dimentica delle rivalità tra gang
Comunicazione, esercizi fisici ed espressivi, e giochi di ogni genere (in stile ora di educazione fisica durante gli anni scolastici) sono alla base del laboratorio: lo scopo è quello di mettere a proprio agio i componenti di un ampio gruppo, di permettere a dei detenuti, che fino a poco tempo prima appartenevano a gang rivali ed erano nemici, di rivelarsi come esseri umani, con le loro imperfezioni, ma anche coi loro punti di forza. Gradualmente, dopo tale percorso di scoperta personale, iniziano a relazionarsi tra di loro e a stabilire un rapporto che può essere considerato qualcosa di simile a un’amicizia: vengono abbattute le pregresse barriere razziali e si dimentica qualsiasi precedente alleanza e rivalità tra gang.
È qui che arriva la Commedia dell’Arte (i carcerati devono “interpretare” Pantalone, Arlecchino, Pulcinella, Mario, Isabella e alcune situazioni tipiche che li riguardano), ed è proprio quando i detenuti dimostrano di essere in grado di liberare e manifestare le proprie emozioni, che Robbins chiede loro di assumere una maschera (col trucco sul viso), sprigionando determinati tipi di sensazioni che devono andare a coincidere anche con una particolare mimica. Il progetto di Robbins è significativo, e punta su una realtà che, probabilmente, in Italia non è così affrontata o nota come negli Stati Uniti; tuttavia, nel corso del documentario, talvolta si tende a disperdere l’attenzione a causa dell’estensione e reiterazione, non necessarie, di alcune esercitazioni del programma.
Nonostante 45 Seconds of Laughter non si possa completamente definire un documentario che accusa la gestione dei detenuti nelle carceri statunitensi, il messaggio di Tim Robbins sarebbe stato ancora più diretto, e compreso, se avesse optato per una durata complessiva minore, senza perdersi nella ripresentazione di concetti e situazioni già esposte in precedenza.