Berlinale 2018 – 7 Days in Entebbe: recensione
La recensione di 7 Days in Entebbe il film di José Padilha con protagonisti Daniel Bruhl e Rosamund Pike presentato in anteprima alla Berlinale 2018
Come ci insegna Umberto Eco nel suo saggio Il fascismo eterno (La Nave di Teseo, 2018), così come ci possono essere diversi tipi di fascismo in quanto questo non è stato altro che un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni, al contrario il nazismo è sempre stato uno e uno soltanto. Per questo motivo, la parola fascismo è presto diventata sineddoche per tutti quei regimi totalitaristici a cui non era possibile dare altri nomi. Fascismo e nazismo sono inoltre due delle parole chiave che ritroviamo in 7 Days in Entebbe, ultimo film di José Padilha, già vincitore dell’Orso d’oro nel 2008 per Tropa de Elite – Gli squadroni della morte, presentato in concorso alla 68esima Berlinale.
È il 27 giugno del 1976 quando quattro dirottatori salgono a bordo del volo Air France partito da Tel Aviv e diretto a Parigi. Due di loro appartengono al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), gli altri due, Brigitte (Rosamund Pike) e Wilfrid Böse (Daniel Brühl), sono tedeschi dell’organizzazione terroristica tedesca Cellule Rivoluzionarie. Dopo aver dirottato l’aereo all’aeroporto di Entebbe, in Uganda, i passeggeri vengono tenuti in ostaggio per una settimana. Nel frattempo, nelle sale del governo israeliano si cerca di trovare una soluzione all’impasse politico senza cedere alle minacce dei terroristi.
7 Days in Entebbe: una miccia che non prende mai fuoco
Thriller che impiega troppo a ingranare, 7 Days in Entebbe segue tre diverse linee narrative che procedono l’una parallela all’altra. Alla principale che si concentra sui dirottatori che, tempestivamente, prendono controllo dell’aereo, si affianca quella che indaga i giochi di potere che si consumano nelle stanze politiche del governo e una terza che segue due ragazzi, lui soldato che parteciperà all’operazione Thunderbolt, lei ballerina impegnata nelle prove di uno spettacolo. Quest’ultimo sarà l’ultimo, sottile collegamento per giustificare il cross-cutting continuo tra le prove e la messa in scena dello spettacolo con le prove e l’attuazione della missione militare.
Sebbene le due diverse performance siano contrapposte con la palese intenzione di andare a costruire quella tensione che tende a latitare per tutto il resto della pellicola – e indubbiamente notevole è la coreografia di Ohad Naharin eseguita dalla Batsheva Dance Company – tale crescendo purtroppo funziona solo parzialmente, con l’esplosività visiva della danza costantemente spenta dallo stallo strategico delle operazioni militari.
7 Days in Entebbe: una sceneggiatura debole, che non convince
Al tempo stesso, se nelle scene a Entebbe l’attenzione è diretta più al dramma ideologico di Wilfrid, incapace di fare i conti con il suo essere tedesco e il suo identificarsi come rivoluzionario – un’identificazione che, esplicitandosi in un atto violento come il dirottamento di un aereo, per forza di cose porterà i passeggeri ad associarlo nella memoria alla follia nazista – il continuo scontro politico tra il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin e il Ministro della difesa Simon Peres ruba sorprendentemente la scena a qualsiasi altro intreccio drammatico. Purtroppo però questo succede in un gioco al ribasso che raramente dovrebbe verificarsi in produzioni del genere.
Anche nel comparto recitativo si registrano ben poche sorprese. Il Wilfrid di Brühl è un personaggio eccessivamente onesto e trasparente tanto da rendere pressoché impossibile trovare un qualsiasi appiglio a cui aggrapparsi per offrire un colpo d’ala alla recitazione. Allo stesso modo, Pike, fatica a scrollarsi di dosso un’espressione fin troppo apatica persino per il personaggio scostante e altezzoso come quello che è chiamata a interpretare. Più in generale, è la sceneggiatura stessa che non riesce a presentarci personaggi convincenti e riusciti, come per esempio quello del dittatore Idi Amin che nelle poche scena a lui dedicate ne esce decisamente mortificato.
In definitiva, l’unica cosa che 7 Days in Entebbe aggiungere di nuovo al racconto dell’operazione Thunderbolt è il deciso ridimensionamento del ruolo giocato dal fratello maggiore del futuro Primo Ministro Israeliano Netanyahu. Impegnato in prima linea al momento dell’azione contro le forze armate ugandesi e i dirottatori, Yonatan “Yoni” si è sempre detto fosse stato ucciso dai terroristi del FPLP dopo aver tratto in salvo i civili mentre nel film lo vediamo cadere a terra, ucciso da una pallottola ugandese ancora prima che il salvataggio degli ostaggi abbia inizio. Oltre a questo e al tentato parallelismo tra teatro e guerra, ci rimane poco altro.