A Classic Horror Story: recensione del film horror Netflix
Tra strizzatine d'occhio, ispirazioni, omaggi e cambi di registro, A Classic Horror Story promette un film a scatole cinesi che rivela ogni svolta al momento giusto, collaudata da una regia molto ispirata.
Disponibile dal 14 Luglio 2021 in esclusiva su Netflix, A Classic Horror Story segna il ritorno di Roberto De Feo dietro alla macchina da presa, dopo l’acclamato The Nest del 2019. Questa volta viene sostenuto da Paolo Strippoli, giovane regista coratino affascinato dai thriller/horror, e si impegnano a riscrivere le regole del genere con un film particolare e ammantato da una componente scenografica molto forte. Il titolo è piuttosto esplicativo: una classica storia dell’orrore, con omaggi alla tradizione italiana partendo da riferimenti di icone imprescindibili (come La Casa di Sam Raimi o il leggendario Non Aprite Quella Porta di Tobe Hooper) per arrivare a qualcosa di completamente nuovo.
La Puglia è la location perfetta per affrontare un racconto che ha tutta l’intenzione di avvilupparsi su sé stessa, contorcendosi ed intrappolando cinque carpooler in pericolo. Durante la notte, per evitare la carcassa di un animale si schiantano contro un albero. Nel riprendere i sensi si ritrovano in mezzo al nulla, con un bosco fitto ad attenderli e una casa fatta interamente di legno e prelevata dall’immaginario dei fratelli Grimm. Elisa (Matilda Lutz), Riccardo (Francesco Russo), Fabrizio (Peppino Mazzotta), Mark (Will Merrick) e Sofia (Yulia Sobol) dovranno fidarsi l’un l’altro per cercare di uscire dall’incubo che li ha risucchiati, un limbo avvolto dal mistero e con protagonista la leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i tre cavalieri che fondarono la malavita (mafia, ‘ndrangheta e camorra).
Il piatto è servito per confondere le idee ad interpreti e spettatore
A Classic Horror Story è composto da una prima parte colma di cliché: l’obiettivo è quello di presentarli uno ad uno per poi ribaltarli e rivederli sotto una prospettiva differente. I viaggiatori verso una destinazione ignota, la notte che è autrice di incidenti mortali, il tipico animale steso in mezzo alla carreggiata per complicare il tragitto e una casa in mezzo ai boschi. Gli elementi più richiesti nell’ambito dei film dell’orrore diventano un punto di forza per i realizzatori del film Netflix, perché acquistano un sapore diverso; non più una complicazione che va a minare le fondamenta di un racconto già visto, ma un ponte di collegamento con una realtà che fa ancora più paura. Il folklore del nostro paese è pronto a farsi largo tra i protagonisti, contaminando uno scenario riveduto e corretto per l’occasione.
Osso, Mastrosso e Carcagnosso agiscono sugli spalti, intervenendo con impressionante brutalità e non risparmiando sangue, frattaglie e cadaveri. Uomini depositari di saperi, riti, usanze e simboli diversi fra loro ma tutti legati da un unico filo conduttore: la fame. Una fame che consuma location, fotografia suggestiva, alchimia fra i personaggi e il comparto sonoro, con una partitura musicale a cura di Massimiliano Mechelli evocativa e premeditata. A Classic Horror Story, come recita la tagline ufficiale, ci fa credere di star assistendo ad un episodio orrorifico che non stupisce più, ma non è questo il caso. De Feo e Strippoli uniscono le loro abilità e volteggiano con una cinepresa che svolge il ruolo di villain, controllando le azioni degli abitanti del bosco e adottando campi totali ed inquadrature inclinate verso il basso per comprimere la psiche delle vittime.
I riferimenti di A Classic Horror Story, tra cult immortali e ultimi casi cinematografici
Si passa dal cinema di Sam Raimi, con un’abitazione sinistra e pronta a rilasciare un’influenza maligna su tutto il girato, ad apparizioni improvvise di minacce terrorizzanti sulla stregua di Leatherface della saga di Non Aprite Quella Porta. Una ricetta che non può completarsi senza il boato di una cittadina che si mobilita al suono di un allarme, nel cuore della notte in pieno stile Silent Hill (in particolare la trasposizione filmica del 2006 firmata Christophe Gans) e la delineazione di una setta che ricorda a grandi linee l’operato di Ari Aster in Midsommar (2019). Oltre ai cliché, l’originale Netflix si muove fra le strutture narrative, gli oggetti di scena e i volti di un male ripresi e rielaborati nel corso degli anni. Di classico abbiamo tutto ciò che serve ai registi e agli attori per preparare una giostra truculenta e tinta di un rosso intenso che caratterizza anche le scene notturne.
La sceneggiatura si rivela così vincente e ottimamente studiata, delimitando tutto ciò che appartiene all’immaginario horror per regolare una macchina produttiva instancabile controllata da un occhio esterno. I desideri dello spettatore e l’apparente ingenuità dei personaggi che abitano il film sono pezzi di un puzzle ancora più esteso in termini di resa scenica e quadro visivo. Il carattere anarchico ed imprevedibile della seconda metà di A Classic Horror Story stabilisce nuove regole e reinterpreta le figure di vittime, carnefici, semplici comprimari trattati come carne da macello e final girl. La trappola meticolosamente preparata per perdere le tracce di una strada asfaltata diventa un gioco perverso tratto da un orrore tutto italiano che prevede brutali sacrifici, con il chiaro intento – esposto con eleganza e sorprendente caparbietà – di impreziosire una regia sempre attenta a non farsi scoprire nell’impenetrabile teatro dell’orrido e del terrore.
Nota di merito da riservare ad un doppio finale che ha il preciso compito di chiudere un percorso intriso di dolore di un personaggio chiave che ha dovuto subire ogni twist posizionato nell’ultimo atto. Senza imbatterci in spoiler, si tratta di una interpretazione mai caratterizzata da grida e urla assordanti che ci accompagna con mano verso lo spirito sovversivo di una matrioska cinematografica che si smonta e rimonta a proprio piacimento.