A Day: recensione del film di Cho Sun-ho
Loop temporali e bisogno di redenzione in salsa coreana per A Day, in sala dal 26 agosto 2021.
La progressione corretta: ieri, oggi, domani. Su questo principio basilare della fisica del tempo siamo tutti d’accordo. Da qualche tempo a questa parte tuttavia, si parte nel 1993 con Ricomincio da capo, il cinema ha deciso di fare a pezzi la tradizionale armonia del tempo che passa introducendo una sfumata variazione sul tema, fissata sull’ossessivo rintocco di: oggi, oggi e ancora oggi. Etc. etc.
A Day, regia del coreano Cho Sun-ho, segue la moda e immerge i suoi protagonisti nel più soffocante dei loop temporali per filare una trama che intreccia colpa, rimpianto, vergogna e redenzione. Veloce nel ritmo, pulsante d’azione, un po’ confusionario a tratti ma sinceramente emozionante. Nelle sale italiane dal 26 agosto 2021, distribuito da PFA Films e Emme Cinematografica.
Un incidente che si ripete, misteri che si svelano
Negli ultimi anni il meccanismo è stato abbondantemente replicato ma in chiave essenzialmente action, da Source Code a Edge of Tomorrow – Senza Domani. Poi è toccato a Palm Springs – Vivi come se non ci fosse un domani rovesciare la clessidra, restaurando la formula all’originaria gloria sentimental/esistenziale. A Day si posiziona un po’ a metà strada, con un gusto spiccato per l’azione. La giornata scelta per la ripetizione è sinceramente orribile.
Orribile per il chirurgo di fama Kim Myung-Min, che perde la figlia Jo Eun-Hyung in un sinistro causato, sembrerebbe, da un taxi guidato da Yoo-Jae Myung. Il taxi, oltre alla bambina, si porta via anche la moglie del paramedico Byun Yo-Han. I due uomini non faticano ad adattarsi alla soprendente novità temporale, ottima soluzione di sceneggiatura, molto semplicemente si danno da fare per cercare di porre rimedio al male. E come? La logica è quella del videogioco, se ne esce solo dopo aver risolto il garbuglio. Tenteranno varie strade.
Proveranno ad andare più veloci del taxi. Non funziona. Tenteranno di spostare le due donne, portarle via dall’incrocio fatale. Niente. Forse il problema è di prospettiva. Senza anticipare nulla, il taxi e chi lo guida contano più di quanto sembri. La tensione accumula per detonare in un finale di particolare rumorosità che porta alle estreme conseguenze il discorso, accennato fino a quel momento, sull’ineluttabilità del destino e la responsabilità personale.
A Day, questione di colpa e redenzione
La suspense si costruisce per accumulazione. Un uomo nel loop, verità parziale. Due uomini nel loop, verità più complessa ma non soddisfacente. Terzo uomo nel loop, bang. La trinità morale, colpa peccato e redenzione, struttura l’odissea di uomini spezzati chiamati a fare un bilancio di cosa ha funzionato e cosa no. Il mezzo è la più soprendente delle sospensioni temporali. Il replay ossessivo è estenuante, talvolta l’impressione è che il film fatichi a tenere insieme le tante piste che sparge qui e là, in attesa di andare finalmente a dama con la storia e i personaggi.
Ma l’emozione è solida. E in aggiunta a questo, l’idea di base appartiene certo al cinema contemporaneo, ma non al punto di avvertirne l’abuso. Questo aiuta molto A Day garantendo al racconto un’intensità e una tensione fresche, vibranti, non banali. Contribuisce la devozione alla causa dei tre interpreti principali, che combinano adeguatamente presenza fisica e interrogazione intima.
Si tratta, in fin dei conti, di misurare lo spazio simbolico e materiale che separa ciascuno di noi dalla persona, o le persone, che ama. Nella promessa (o nella minaccia) di redenzione offerta dal film si insinua una sottile patina di rimpianto, la vita non consente di riavvolgere il nastro e cercare di rimettere a posto i cocci. Ma forse in quest’ambiguità si nasconde la forza sotterranea del cinema, che ribalta la vita e il tempo e tutte le cose. In piena libertà crea il suo mondo e detta le regole. Che però ci aiutano a capire meglio il nostro mondo, i nostri incidenti, i nostri successi. A Day ha il pregio tipico di ogni buon film. Di ogni film dignitoso. Somiglia a un punto di domanda.