Biografilm 2021 – A Declaration of Love: recensione
Non solo film civile, A Declaration of Love combina parole e immagini di pari forza per restituire dignità a un innocente, di cui accompagna lo sguardo singolare verso un più un più ampio riconoscimento del suo valore.
Come il titolo a suo modo rivela, A Declaration of Love, documentario di Marco Speroni, non è un film di denuncia né di testimonianza. La camera riprende quasi per tutto il tempo il volto segnato, ma intatto nella bellezza dei lineamenti, di Curtis McCarty, un uomo ‘tumulato’ in prigione per ventidue anni, di cui diciannove trascorsi nel braccio della morte del Penitenziario di Stato dell’Oklahoma, perché accusato di aver stuprato e ucciso un’amica.
Dichiarato innocente, non è stato risarcito per gli anni di vita ceduti alla smania giustizialista, ma abbandonato. Vagabondo e tossicodipendente, afflitto da un disturbo da stress post-traumatico di grado severo, dopo alcuni anni di libertà, è stato ‘riacciuffato’ e condannato a dieci anni, massimo della pena prevista, per possesso di stupefacenti. Oggi, mentre scriviamo e il lungometraggio viene presentato al Biografilm 2021, di Curtis McCarty non si sa nulla: nel 2020, infatti, ha fatto perdere le sue tracce.
A Declaration of Love non è solo un film di denuncia nei confronti di un sistema giudiziario malato, ma richiamo alla pietas, all’amore per l’umano
Di fronte a una vicenda umana affascinante, che si colloca in una posizione perfettamente mediana tra emblematicità ed eccezione, il regista sceglie di non piegare le parole che il suo protagonista gli affida a un messaggio politico, ma di lasciarle fluire come cantilena, nell’andamento incantatorio, ma mai lamentoso, che viene loro naturale assecondare. Non è un flusso di coscienza privo di struttura o di argini sintattici, tutt’altro: è la narrazione di una sofferenza che non può dirsi del tutto né risolversi nella ricerca di una facile chiave di comprensione.
Certo, l’America ne esce, come la fotografia del film superbamente evoca, irradiata di una luce sinistra, nella grossolanità dei suoi gesti colpevolizzanti, nella sua fobia per gli ultimi, nel suo rigetto di chi non può essere inquadrato, di chi, per qualche motivo che non si prende la briga di indagare, è semplicisticamente definibile – e da lei, forse ex grande Nazione, di fatto definito – come fallito.
Ma, un po’ come in Nomadland, un film di cui molti hanno sottolineato il carattere civile, in verità secondario e subordinato a disegni ben più ‘lirici’, anche in A Declaration of Love, la questione centrale è l’amore, o meglio la pietas, una forma alta di compassione per le esistenze storte, per gli uomini che si ritrovano a fare i conti non soltanto con demoni interni tenaci, ma anche con l’arbitrarietà sempre crudele del caso.
A Declaration of Love svela lo sguardo ‘interno’ di uno sconfitto su una realtà che l’America non vuole vedere
Ecco allora che la dichiarazione d’amore del titolo non è tanto quella, pure struggente, che McCarty fa alle donne, di cui teme l’abbandono e l’impossibilità dell’incontro, ma soprattutto un’altra: la dichiarazione d’amore del regista nei confronti dell’oggetto della sua ricerca filmica, nei confronti di quell’uomo di cui registra i movimenti del volto e delle parole, del fondo indicibile del misterio di vivere – e di essere umani, sempre singolari – che quei movimenti traducono prossemicamente.
Istantanee, scattate dello stesso McCarty, scorrono sullo schermo e fissano gli sguardi – ora trasognati, ora sfocati, ora sfidanti, in ogni caso mai veramente in grado di vedere – degli eroinomani incrociati lungo la strada: una sequenza che restituisce a pieno sia il talento dell’uomo ‘marchiato’ dalla colpa, il destino deviato da un’accusa non confermata a cui ha finito per credere, sia l’eredità di un orizzonte non banale, sbarrato dalla furia persecutoria prima di un sistema giudiziario sommario, poi di una condanna caduta, ma nondimeno interiorizzata, incistata nel profondo, ‘scrittura’ divenuta irreversibile dell’inconscio.