A dire il vero: recensione del film di Nicole Holofcener
Riuscirà il matrimonio tra Julia Louis-Dreyfus e Tobias Menzies a sopravvivere al peso delle sue tante, piccole, catastrofiche bugie innocenti? A dire il vero, questo è il titolo dell'elegante commedia newyorkese scritta e diretta da Nicole Holofcener, al cinema dall'8 febbraio 2024.
Mancava da un po’, dal 2018, Nicole Holofcener. Mancava la piena operatività, una storia di cui fosse del tutto autrice, regista e sceneggiatrice. Il suo ultimo film si chiama A dire il vero (titolo originale You Hurt My Feelings). Ha cominciato il suo cammino (criticamente felice) al Sundance Film Festival 2023, ha per protagonisti Julia-Louis Dreyfus e Tobias Menzies ed è la storia di una coppia e delle parole, sincere o meno, che fanno la vita di una coppia. I protagonisti scelgono un’ipocrisia a bassa intensità per mandare avanti il loro matrimonio fino al giorno in cui, inavvertitamente, la verità scivola nella conversazione e allora… il film è il racconto dell’odissea esistenziale che segue a questo allora. Nelle sale italiane dall’8 febbraio 2024, per Vertice 360.
A dire il vero: una verità di troppo e un matrimonio è in crisi
Non c’è niente di fuori dal comune, di irripetibile e di – come proprio gli americani direbbero – larger than life, nell’imprevisto che scuote il matrimonio tra Beth (Julia Louis-Dreyfus) e Don (Tobias Menzies). Questo perché A dire il vero è un film sull’ordinaria amministrazione della vita, pensato per cogliere la verità fondamentali dell’esistenza nelle pose meno glamour e appariscenti. Lo sfondo è una New York intellettuale e agiatamente borghese. I protagonisti sono persone abbastanza realizzate, senza assilli economici. Hanno preoccupazioni di altro tipo, rispetto alle materiali. Intime, spirituali. Beth e Don, come molti altri prima, hanno costruito la loro vita coniugale (hanno anche un figlio) su una coltre di piccole, innocenti, innocue, ipocrisie. Bugie bianche, per non ferire la suscettibilità dell’altro/a. Fanno tutti così.
Si regalano cose che non indosserebbero mai, si incoraggiano quando dovrebbero mostrare un maggior spirito critico, vivono di piccole ipocrisie perché la verità li spaventa. Beth è un’insegnante di scrittura creativa, ha pubblicato un memoir di un certo successo e ha scritto un romanzo; è il primo e cerca il parere del marito, terapista maltrattato dai pazienti. Don dice alla moglie che il romanzo è splendido e non deve preoccuparsi se la casa editrice non sembra entusiasta. A lui piace moltissimo. Vivono ai margini della rispettiva scena professionale, Nicole Holofcener ha cura di presentarceli sotto una luce comicamente imperfetta, maldestra, autentica. Un giorno Beth, a spasso con la sorella Sarah (Michaela Watkins), soprende Don e il cognato Mark (Arian Moayed), attore semifallito, anche lui sostenuto ma solo a parole dalla moglie, che si scambiano confidenze. Ascoltano la conversazione di nascosto e scoprono che a Don il libro non è piaciuto. Se ha detto il contrario, era solo per non ferire Beth.
Il cinema di Nicole Holofcener è un cinema di parole e sulla parola. Confida nella qualità, la sottigliezza e lo spessore dei dialoghi, ma non deraglia in teatro filmato. Sa riconoscere le trappole e le possibilità delle parole, gli strati di significato nascosti sotto la superficie. Le cose che diciamo definiscono il nostro rapporto con la realtà. Beth e Don, Sarah e Mark non vogliono che nessuno li veda per quello che sono; scelgono di mentire perché temono il giudizio. I due protagonisti, dopo l’incidente, smettono di credere alle parole che hanno scritto la storia del loro amore. Se una frase è una bugia, che ne è, in retrospettiva, di tutte le altre? A dire il vero non ha pretese esaustive e totalizzanti, è un film di quotidianità imperfette e piccole cose. Non condanna l’ipocrisia dei personaggi, è una strategia di sopravvivenza forse inevitabile. Cerca, senza darsi un’aria di eccessiva importanza, di mostrare una via migliore, ai personaggi e in modo indiretto anche al pubblico. Non si tratta di abbandonare l’ipocrisia delle parole. Ma forse, forse, di riconoscerla e usarla in maniera più costruttiva. E di non aver paura della verità.
Un film che si concentra su piccole bugie per parlarci di grandi verità
In media, restando sul decennio appena trascorso, Nicole Holofcener dirige un film ogni cinque anni. Non un’eternità ma poco ci manca, per i ritmi e le esigenze del processo creativo. Il 2013 di Non dico altro (sempre la Dreyfus in coppia con James Gandolfini), il 2018 di La seconda vita di Anders Hill (Ben Mendelsohn), il 2023 (che è il 2024 da noi) di A dire il vero. Non è rimasta con le mani in mano nel frattempo, tra i vari credits è da segnalare, sempre per il 2018, il contributo alla sceneggiatura del bel biopic di Marion Heller, Copia originale. Il punto è che il tempo passa e può combinare brutti scherzi all’attitudine di un autore/rice. I temi sbiadiscono, il mondo cambia in fretta e non è più chiaro cosa raccontare e come, il fuoco si spegne: troppi compromessi, troppe speranze maltrattate dalle storture dell’industria (in America la chiamano così, industry). È una bella notizia che le cose non siano cambiate con A dire il vero.
Il cinema di Nicole Holofcener è un’arte intelligente e dannatamente newyorkese. Borghese negli interni, umoristica ma senza volgarità, con un retrogusto malinconico sempre in agguato, attenta alle screpolature e ai piccoli controsensi nascosti ai margini delle relazioni umane. Sguardo femminile, attento alle ragioni di tutti. A dire il vero è un film che insegue grandi verità attingendo ai piccoli momenti della vita di una coppia, anzi di due, l’una il riflesso dell’altra. Il tema è prestigioso, la disponibilità a guardare e accettare la vita per quella che è, accogliendone l’imperfezione, riconoscendo che l’altro o l’altra non è esattamente quello che pensiamo ma va bene lo stesso. Il modo con cui la storia si avvicina e circonda il grande tema è deliberatamente modesto, coi piedi ben piantati in terra. Solo piccole, innocenti – non più innocenti della bugia bianca che porta il matrimonio di Beth e Don sull’orlo del baratro – fette di vita.
Nicole Holofcener cerca Dio e il diavolo sempre e solo nei dettagli. A dire il vero è un film diabolicamente tarato sui dettagli e divinamente orientato a tirarne fuori emozioni e verità universali. I suoi protagonisti, li pesca tutti nel mondo seriale. Sono intelligenti, empatici e interessanti, proprio perché rifiutano una visione prestigiosa e falsamente divistica del mestiere. Credibili perché malmessi, stropicciati, piegati ma non spezzati; comunque affascinanti. Julia-Louis Dreyfus (Veep, Seinfeld), assurta al ruolo di musa ispiratrice, Tobias Menzies (The Crown, Il Trono di Spade), il bravissimo e da scoprire Arian Moayed (Succession). Non è un caso; il tipo di autenticità inseguito dall’autrice newyorkese è raro al cinema ma di casa nella serialità degli ultimi due decenni o giù di lì. In tv il mantra è stato spesso: rendiamo le cose più interessanti. E non, hollywoodianamente parlando, rendiamole più gradevoli (il copyright delle ultime due frasi è di Steven Soderbergh). A dire il vero è un monito indiretto al cinema americano, perché ripensi se stesso in direzione di una maggiore integrità e realismo.
A dire il vero: valutazione e conclusione
Nicole Holofcener ruba a Woody Allen l’idea di New York come stato mentale. E a Nora Ephron l’umorismo e lo sguardo femminile che ingarbugliano le complessità della vita con leggerezza e autoironia. A dire il vero è però roba sua, una fantasia dolceamara su bugie, verità, vita di coppia, aspettative e la lunga, tortuosa, strada verso la felicità. I personaggi imparano a cambiare senza tradirsi troppo. Accettando l’imperfezione e sfruttando al meglio le circostanze. Julia-Louis Dreyfus e Tobias Menzies continueranno a regalarsi orribili orecchini e maglioncini discutibili, che odiano e di cui farebbero volentieri a meno. A differenza di prima, pienamente consapevoli e ridendoci sopra. La piccola innocente filosofia di A dire il vero è una lezione di umiltà per un cinema americano troppo preso dalla ricerca di un’illusoria (e fragile) grandezza esteriore.