Roma FF18 – À la recherche: recensione del film di Giulio Base
Il progetto, nella sezione Freestyle della Festa del Cinema di Roma 2023, è un omaggio sentito all'arte in tutte le sue forme, a tratti artificioso e statico.
À la recherche è il nuovo lungometraggio di Giulio Base (Il banchiere anarchico, Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma) che segna il suo ritorno su schermo dopo Il maledetto, presentato l’anno scorso alla Festa del Cinema di Roma. Anche quest’anno, alla 18esima edizione dello stesso evento, il progetto dell’autore rientra nella categoria Freestyle, perfetta per definire un titolo di difficile inquadramento.
Il film è un elegante esercizio di stile narrativo che usa Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust come mezzo di indagine artistica, sia cinematografica che letteraria, proponendo un racconto tutto da scoprire che però a tratti arriva troppo artificioso, con una regia che avrebbe richiesto maggiore dinamismo. À la recherche è in arrivo nelle sale italiane dal 2 novembre 2023 con la distribuzione affidata ad Eagle Pictures.
À la recherche: Proust da materia narrata a piano di lettura
À la recherche si presenta in modo puro e onesto: il rumore delle dita che battono intensamente la macchina da scrivere introducono il lavoro del regista e sceneggiatore Pietro (Giulio Base), ingaggiato dalla nobile Ariane (Anne Parillaud) per un compito particolare. L’autore deve adattare il robusto romanzo Alla ricerca del tempo perduto di Proust così da proporlo al maestro del cinema italiano Luchino Visconti, in un momento propizio di febbre creativa. Proprio il libro del famoso scrittore francese, da sfondo onnipresente del racconto, passa rapidamente al piano di lettura della storia, con la pesante e sferzante critica alla borghesia di Proust che si tramuta in un giudizio irriverente sul periodo storico di riferimento del film ovvero il 1974. Tra le pause dalla scrittura della sceneggiatura, infatti, Ariane e Pietro hanno l’occasione per demolire, senza ritegno, ogni istituzione possibile, dal Partito Comunista all’industria cinematografica, dai registi più impegnati alla nobiltà oramai decaduta.
Il quadro narrativo, oltre ad essere molto ricco di spunti di riflessione, è squisitamente irriverente, con con l’umorismo (molto spesso nero e grottesco) che diventa cifra stilistica della critica, una chiave di volta azzeccata che controbilancia la raffinatezza e l’eleganza del copione. La sceneggiatura, infatti, vive di intellettualismi, di discorsi profondi e stratificati che per forza di cose hanno proprio bisogno di una risata sguaiata che va ad abbassare il tono aulico della pellicola. Questa alternanza, quindi, tra la cura formale della narrativa e una comicità molto viscerale, dona al lungometraggio un dinamismo insolito che giova sicuramente al ritmo del film che quindi non ha necessità di stacchi netti di montaggio.
Ma À la recherche non è solo questo: tra le pieghe della critica, c’è anche spazio per la celebrazione dell’arte, sia cinematografica che letteraria. Un tributo alle parole, alla poesia, ma anche ai grandi temi e lotte che il cinema impegnato ha provato a portare avanti nel corso degli anni. Al contempo, vi è anche un sentito omaggio al cinema di genere, dalle commedie sexy al poliziottesco, una forma filmica che, purtroppo, al giorno d’oggi ci dimentichiamo ma che è stata fondamentale per l’evoluzione della settima arte nel nostro paese. Attraverso la caratterizzazione dei due protagonisti, in questo modo, viviamo un’epoca che non c’è più, così tanto distante dalla nostra, in una modalità però altamente introspettiva perché letta tramite la costruzione dei personaggi.
Proprio la coppia centrale del lungometraggio è scritta in modo tale che si vada a creare un conflitto perenne: e proprio da questo contrasto tra un autore “comprato” dall’industria che è riuscito solo una volta a trovare spazio per la sua vera arte e una nobile che si atteggia a grande diva della Dolce Vita ma che è nascosta nell’ombra, si genera un interessante disequilibrio che poi diventa un nucleo nevralgico della storia. L’alchimia tra Giulio Base ed Anne Parillaud, tra l’altro, è evidente, con i due attori che sono riusciti perfettamente a far proprie le istanze vulcaniche dei personaggi, domandole in modo da gestire diversamente le tante sfumature caratteriali di Ariane e Pietro che, alla fine, riescono a scoprire anche qualche punto in comune.
À la recherche: l’artificio e l’immobilismo
Detto questo, nonostante la chiarezza d’intenti e uno sviluppo interessante dei vari temi e contenuti trattati, l’opera si impantana in qualche passaggio narrativo non propriamente riuscito che, agli occhi del pubblico, potrebbe apparire effettivamente artificioso o forzato. Un esempio è dato dal finale che arriva in modo improvviso, con sì qualche conferma ma che presenta una situazione totalmente spiazzante che non sembra far parte appieno dei due protagonisti che si trasformano in qualcosa di diverso. Oltre a questo, tra l’altro, anche gli stessi dialoghi alcune volte vanno fuori strada perché, carichi di una critica e di uno smascheramento sociale forse troppo accentuato, diventano portatori di un’artificialità meccanica e anche posticcia.
Anche se non sempre perfettamente equilibrata, la sceneggiatura di À la recherche ha comunque il grande merito di esplorare con cura e dettaglio la forma, costruendo per prima cosa un linguaggio coerente con il periodo e contesto storico di riferimento. Solo in seconda battuta arriva quindi la ricchezza del contenuto e questo non è così scontato in una pellicola che facilmente sarebbe potuta ricadere in una semplice e lunga conversazione senza capo né coda, con un risultato inconcludente e privo di sostanza. Invece, probabilmente, in questa unione intelligente di forma e materia, Giulio Base è riuscito a trovare una sintesi efficace, tra denuncia ed elogio di un periodo dalla fascinazione indubbia.
Dal punto di vista registico è evidente che ne À la recherche ci sia una connessione con il mondo teatrale (come tra l’altro accaduto con il precedente progetto di Base, Il maledetto, che ripropone in chiave moderna il Macbeth shakesperiano) e ciò è in qualche modo limitante ai sensi dello sviluppo della storia. È chiaro che, di fronte ad un copione così tanto parlato e carico di argomenti, spostare lo sguardo su più location sarebbe stato deleterio riguardo la comprensione del messaggio di fondo, ma è altrettanto vero che il coinvolgimento di altri luoghi oltre la sola dimora di Ariane avrebbe garantito maggiore dinamismo al lungometraggio. Quindi, se da un lato l’utilizzo di un solo set consente al pubblico di connettersi maggiormente alla sceneggiatura, a lungo andare rischia di soffocare l’attenzione, ingabbiata in unica prigione estetica.
La regia, però, anche se limitata in qualche modo dall’ambiente, cerca in tutti i modi di variare la messinscena, inserendo volutamente degli elementi di “disturbo” che arricchiscono, anche se in modo molto leggero, la storia come le chiamate costanti tra Ariane e Guido, la musica dello stereo, il ticchettio delle dita di Pietro sulla macchina da scrivere e ancora la presenza di un topo che, a quanto pare, viene visto solo dalla nobildonna e che, per come è stato gestito su schermo, potrebbe benissimo essere solo una metafora o un elemento aggiunto per donare colore alla trama. Per quanto, però, la cinepresa si sforza di proporre qualcosa di nuovo, l’immobilismo dell’ambientazione è troppo forte.
À la recherche: valutazione e conclusione
Una regia fortemente teatrale dipendente da un unico e opprimente luogo scenico; una sceneggiatura un po’ artificiosa che brilla per la sua eleganza formale e ricchezza di contenuto; una fotografia sfavillante e accesa, coerente con gli anni 70′; una recitazione di ottimo livello in entrambi gli attori protagonisti; un sonoro poco presente che in certi passaggi guida la storia; una difficile unione tra critica e tributo all’arte cinematografica e letteraria. In conclusione un lungometraggio verboso e raffinato, poco vario sul piano registico che però ha una sovrastruttura tematica molto solida.
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