A mente fredda: recensione del thriller spionistico Netflix
La recensione del film Netflix A mente fredda. Il thriller spionistico con Bill Pullman è un doppio gioco di potere che prende forma su una scacchiera.
A mente fredda, il nuovo thriller spionistico Netflix con protagonista Bill Pullman, è un maldestro tentativo di risvegliare la consapevolezza verso le relazioni politiche odierne tra Stati Uniti e Russia, ma fallisce risultando a tratti incomprensibile.
Il film è ambientato nei primi anni ’60, quando i rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica erano tesi, in vista di una sfida nucleare che avrebbe portato un mondo già incrinato al definitivo collasso. La guerra fredda non si stava ancora disputando sui campi di battaglia, ma solamente tramite scambi e furti di informazioni ad opera di spie che lavoravano costantemente da parte di entrambe le fazioni. In molti si chiedevano quale potenza sarebbe stata la prima a colpire, portando a una nuova minaccia nucleare e a una terza guerra mondiale. Dopo la rivoluzione cubana, le truppe sovietiche si trovavano a soli 160 chilometri dalla Florida e si pensava fossero ormai in procinto di un attacco diretto. Nell’Ottobre del 1962, il presidente Kennedy venne informato dei silos costruiti a Cuba e dell’aumento dell’attività militare nemica. Era ormai giunto il momento di decidere se preparare le truppe a una battaglia vera e propria fatta di sangue, missili e uomini.
A mente fredda: il film Netflix sui rapporti tra USA e Unione Sovietica
Il film Netflix A mente fredda (The coldest game) pone le sue fondamenta su questi presupposti, allestendo un doppio gioco di potere che prende forma attraverso criptiche mosse spionistiche e una tavola di scacchi. Il maldestro tentativo di allacciarsi alla storia odierna, in cui Stati Uniti e Russia sono amici e nemici a giorni alterni, viene completamente soppiantato da una narrazione che dimentica come impostare un intreccio dinamico e interconnesso. La storia viene lasciata al caso senza un collegamento solido tra le parti e durante buona parte del racconto si perde il filo tra spiegazioni dimenticate, parziali o del tutto indecifrabili. In un contesto storico reale, il film introduce un personaggio inventato di nome Joshua Mansky, un presunto matematico brillante, che decenni prima era un abile e imbattibile giocatore di scacchi, e che ora riversa la sua fragile natura nei fiumi dell’alcol. L’uomo viene risucchiato in un conflitto mondiale per rivestire i duplici panni di spia e campione, costretto dai servizi segreti a partecipare a un torneo di scacchi contro l’esponente sovietico Alexander Gavrylov, così da vincere la reputazione americana e salvare le sorti di una guerra pronta a disputarsi sul campo militare.
A mente fredda: un thriller dalle discrete potenzialità ma dalla poco apprezzabile realizzazione
L’esordiente regista polacco Łukasz Kośmicki utilizza il torneo di scacchi come campo di battaglia tra le due fazioni, gettando alla rinfusa ideologie politiche e personaggi improbabili che finiscono con rendere il film un agglomerato confusionario di avvenimenti insensati, in cui si capisce ben poco di ciò che sta succedendo, facendo perdere il filo del discorso e qualsiasi interesse suscitato dalle fidate premesse. Egli prende le caratteristiche classiche del genere thriller e le inverte, decelerando progressivamente la narrazione fino a un punto morto di non ritorno, in cui dimentica totalmente qualunque logica, preferendo intrappolare il film in una gabbia di monotonia e assurdità, priva di qualsivoglia tensione emotiva o colpo di scena. Scacchi e spionaggio potevano ricondursi a un gradevole binomio dalle discrete possibilità di successo se fossero stati messi in reale correlazione tra di loro, ma la volontà di alternare a singhiozzi i due temi li ha resi quasi a sé stanti, senza una vera unità continuativa.
Se da una parte, la sceneggiatura ha fortemente puntato su situazioni eccessive e caricaturali, dall’altra la costruzione dei personaggi e la recitazione che ne è emersa non ha contribuito a risollevare le sorti del film. L’intero sviluppo narrativo viene assecondato da uno scambio di sguardi e parole non dette e un protagonista, Bill Pullman, che riveste un ruolo che non gli calza a pennello, palesandosi in svariati momenti come goffo e fuori posto. A suo favore va ricordato che, inizialmente, la parte era stata affidata a William Hurt e, solamente a pochi giorni delle riprese, Pullman è stato chiamato per sostituirlo, contribuendo forse a una frettolosa preparazione, non sufficiente per un personaggio già grossolano di suo. Il restante cast viene inserito come un groviglio inestricabile composto da figure facilmente dimenticabili e poco marcate. A incorniciare la storia risiede forse l’unica nota meno stonata del coro, con il direttore della fotografia Pawel Edelman, noto per le sue collaborazioni con il regista Roman Polanski, che decide di puntare su dei classici colori neutri durante gli scambi di informazioni che si svolgono tra gli americani nel loro quartier generale, per poi stabilire un freddo ambiente fortemente desaturato per contornare le scene esterne, ideale per inquadrare l’atmosfera della città di Varvasia.
In definitiva, un thriller spionistico in cui non emerge nessuno degli argomenti trattati e, grazie a una sceneggiatura che si dirige volutamente controcorrente rispetto al genere appuntato, finisce per incanalarsi in una strada senza uscita che lo scaraventa nel fondo della memoria di chi lo ha visto.