A Vigilante: recensione del film con Olivia Wilde
Nel film d’esordio della regista e sceneggiatrice Sarah Daggar-Nickson, Olivia Wilde è una spietata bad girl vendicativa che sceglie la liberazione delle vittime di violenza domestica dai loro abusatori per liberare definitivamente sé stessa.
Come ormai da oltre vent’anni, il 25 novembre ricorre la giornata internazionale contro la violenza delle donne e il contributo dei media ha da sempre rappresentato una porzione importante nel favorire consapevolezza del pubblico e influenzare il modo in cui la società percepisce i meccanismi di tale violenza. Riuscire davvero ad inserire le complesse dinamiche della violenza di genere, ̶̶ e nello specifico quella domestica ̶̶ in un prodotto di finzione, richiede conoscenza, profondità ma soprattutto complessità. Bilanciare una corretta narrazione che metta al centro non solo le donne, in questo caso vittime, ma anche dare visibilità alla controparte maschile, in questo caso autore della violenza, sono dinamiche sottili e fragili necessari però ad evitare l’inserimento di miti e leggende pericolose che possono facilmente incappare in forme di estetizzazione, giustificazione ̶̶ o normalizzazione ̶̶ della violenza sulle donne.
Questi delicati bilanciamenti sono perfettamente riscontrabili in A Vigilante, lungometraggio d’esordio della regista e sceneggiatrice statunitense Sarah Daggar-Nickson che con un sovversivo punto di vista altamente femminile e femminista propone un revenge movie ad alta tensione sulla vendetta, il lutto e il trauma ma che, evitando volontariamente di mostrarci le controparti maschili, tende a restituire un racconto incompleto.
Il momento di andare via. In A Vigilante Sadie toglie i panni da brava moglie e indossa quelli da bad girl
Una frase in codice, un nome e un indirizzo a volte (non) bastano per andare via davvero. Le donne che sottovoce e in gran segreto dai loro abusatori chiamano Sadie tramite un telefono prestato o una cabina telefonica hanno bisogno di aiuto, e quell’aiuto non proviene da un provvedimento giudiziario, da una protezione dei servizi sociali o da un parente che può accoglierle. Ma è l’arma delle abilità difensive, determinate e violente messe in atto da Sadie, anch’essa come loro vittima di un marito violento e ancor più vittima di un lutto straziante, la perdita del figlio per mano del compagno. Se il gruppo di supporto delle donne vittime di violenza domestica non basta, o almeno non abbastanza a far qualcosa di concreto mentre altre come lei rischiano ogni giorno la vita, allora la “brava moglie” che per anni è stata circoscritta in un ciclo di violenza che oltre alle botte gli precludeva anche amici, libertà, lavoro e indipendenza economica, in perfetto stile rape revenge movie la protagonista sovverte i canoni di un’addomesticata femminilità e inizia ad acquisire l’aura da bad girl. La violenza subita diventa trasgressione e con un taglio di capelli mascolino e un corpo androgino perfettamente tramutato della box e dal krav maga per l’autodifesa, Sadie diventa un’implacabile paladina femminista contro il patriarcato e inizierà un processo di vendetta per lei e per tutte le altre come lei.
Lo stile lucido e per nulla pietistico per un racconto di ri-trovata agency tutta al femminile
Ha le idee chiare Sarah Daggar-Nickson che, in A Vigilante, sceglie uno stile secco, lucido ed essenziale per un racconto che tende ad inclinarsi in due. Se nella prima parte si apprezza lo sguardo intimo e quasi documentaristico del trauma e della violenza, tramite le lunghe sequenze dei primi piani sulle vittime che raccontano con tono realistico ma profondamente crudo gli anni di soprusi e l’incapacità di lasciarli, nella seconda la deriva è quella di abbandonarsi ai manierismi e ai déjà-vu del genere (thriller? horror? crime?) pensati forse più come entertainment spettatoriale che come necessario approfondimento delle dinamiche della violenza domestica. Se le donne, giustamente e giocoforza, sono iper presenti nel racconto, tramite un tono per nulla pietistico o compassionevole dove la camera a mano riprende a stretto contatto il volto spesso camuffato, il corpo atletico ma cicatrizzato e il sudore degli estenuanti esercizi fisici (e degli infiniti attacchi di panico) della protagonista; nel film il maschile è pressoché nullo o rappresentato nella sua mostruosità e nel suo lato più aberrante, giustificando forse con qualche accenno subdolo ad un instabilità mentale del marito la violenza perpetrata su Sadie. Più che un partner violento, il marito di Sadie sembra quasi assumere le caratteristiche di un villain che brutalizza e tortura un corpo che da passivo si fa resiliente e spiccatamente vendicativo in pieno stile action, dove la violenza è sia causa che effetto.
Nonostante la complessità e i perigli di un racconto così complicato come quello della violenza di genere, A Vigilante si distingue per (ri)porre correttamente e coraggiosamente l’agency di una donna che riprendendo in mano la sua identità, simbolicamente si fa portavoce di una rinascita al femminile.