Abang Adik: recensione del film vincitore del FEFF 2023
Nei sobborghi di Kuala Lumpur vivono Abang e Adik, due ragazzi senza documenti di identità in cerca di riscatto e normalità. Un’inattesa tragedia sconvolgerà l’equilibrio del loro rapporto…
Per il Far East Film Festival di Udine, Abang Adik è un film da record: non solo è il primo titolo malesiano a salire sul gradino più alto del podio, ma è anche il più premiato in una singola edizione. La pellicola dell’esordiente Jin Ong, infatti, ha portato a casa ben 3 award su 5, tra Black Dragon (l’alloro assegnato dal pubblico di cosiddetti “esperti”), migliore opera prima e Gelso d’Oro. Un trionfo, che aumenta di valore considerando anche la sua totale imprevedibilità, oltre a far definitivamente emergere una cinematografia fino a questo momento ritenuta minore.
Sul programma del festival, la descrizione che accompagna Abang Adik è “wild lives of two unlucky brothers”, e si può partire da qui: Abang e Adik vivono e sopravvivono a Kuala Lumpur, barcamenandosi tra lavori onesti e traffici illeciti di varia natura. Sono molto diversi tra loro, Abang e Adik, eppure sono inseparabili; si capiscono con uno sguardo, si rispettano, e sanno soprattutto di essere soli contro un mondo che li rigetta e li isola in quanto poveri e privi di documenti, nonostante siano malesi.
Abang Adik: vuoti a perdere a Kuala Lumpur
Due ragazzi qualsiasi, che potrebbero essere fratelli ma che forse non lo sono, legati da un rapporto di condivisione del loro sfortunato quotidiano. Accade così che mentre Abang, sordomuto, cerchi di attraversare la sua giornata nella legalità e lavorando nel mercato del quartiere, Adik all’opposto conduca un’esistenza più “estrema”, al soldo della malavita locale e prostituendosi. Possono succedere tante cose, nelle 24 ore infernali della metropoli, ma una cosa è certa: i due alla sera si ritroveranno nel loro appartamento, condividendo la cena e coprendosi vicendevolmente le spalle in attesa che il sole risorga.
Attorno a loro, un campionario di varia umanità formato essenzialmente dalla vicina di casa transgender Money, dalla ragazza emigrata dal Myanmar innamorata di Abang e dalla assistente sociale Jia En. Un personaggio chiave, quest’ultimo, perché rappresenta forse l’unica possibilità di riscatto dei due, di emancipazione e affrancamento dalla situazione di marginalità in cui sono costretti. Eppure Jia, oltre a dover combattere contro le istituzioni e contro la frattura apparentemente insanabile delle disparità sociali, spesso si dovrà scontrare anche con lo stesso Adik, disilluso e diffidente.
L’orizzonte metropolitano, la fuga impossibile, la possibilità di riscatto
Il colpo di scena di metà film – ovviamente impossibile da raccontare – arriva esattamente nel momento in cui la narrazione sembra adagiarsi su canoni risaputi e prevedibili. È qui che Abang Adik mostra le sue reali qualità, intraprendendo un solido percorso umano che sembra farsi nel momento in cui viene filmato, dando un’impressionante sensazione di immediatezza e spontaneità. Si modifica la gestione degli spazi, tra la necessità di nascondersi e la vertigine della fuga dall’incubo metropolitano, mentre la gestualità e la fisicità dei due protagonisti si fanno ancora più potenti e chiarificatrici.
Ma, soprattutto, non si cede mai al facile sentimentalismo e alla retorica. Anzi, col passare dei minuti il film si compatta e guadagna espressività, in un crescendo che sfocia nella scena madre del dialogo tra Abang e un monaco buddhista. Se è vero che, in ogni film, alla rottura dell’equilibrio segue inevitabilmente la ricomposizione dell’armonia, qua il passaggio avviene in modo lacerante e stordente. L’unico possibile, probabilmente, per un’opera che non fa sconti e che ci insegna che, in fondo, speranza e redenzione possono esistere. Ma che il prezzo da pagare per la loro conquista è altissimo.
Abang Adik: valutazione e conclusione
L’opera prima di Jin Ong è uno spaccato di vita ai margini nell’inferno urbano di Kuala Lumpur, un film costruito su un insospettabile crescendo narrativo, impreziosito da una fotografia intensa e calda. Una storia dura, che trova in Kang Ren Wu e Jack Tan due interpreti perfetti e che riesce a emozionare profondamente, senza mai cadere nella facile retorica del sentimentalismo.