ACAB – All Cops Are Bastards: recensione
Quando si viene a contatto con un’opera del genere, è come se bevessimo acqua torbida, compromessa, come se il Tevere avesse fatto capolino nel vostro bicchiere. E come spesso accade ci si ritrova a contemplare Roma e il suo manifesto funebre al centro di tutto. Roma è la ragazza col bicchiere d’acqua di Renoir, è al centro eppure ne è totalmente fuori. Un essere incapace di gestire la sua complessità.
Acab si inserisce in questo blocco, è un quadrato aprospettico. Ha quattro facce, quattro temi, quattro storie, quattro cronache che indugiano, aspettano di essere percorse, assieme al pane che manca sul nostro tavolo: lavoro, giustizia, famiglia e protezione. Tematiche che vengono prese di petto ed esorcizzate, esasperate, un quartetto d’archi così violento da stridere ancora adesso, fortissimo. Ma è una menzogna, perchè sono cose che non ci sono più, frantumate dall’odio, dalla povertà, dalla violenza e dal razzismo. Si è circondati, non si sa mai a cosa credere. Poichè non ci sono vincitori, ma solo tanti vinti, tanti colpevoli e nessun assolto (tranne Cobra, ma le scelte giudiziarie sono difficili da giudicare).
Le storie principali si canalizzano su Cobra (Favino), il Negro (Nigro), Adriano (Diele) e Mazinga (Giallini) e confluiscono negli eventi storici che percorrono il film: per lo più omicidi quali Filippo Raciti, Giovanna Reggiani, Gabriele Sandri e la Diaz. La favola dello stato, come sentenzia Carletto(Sartoretti) ex poliziotto.
70 uomini, 7° nucleo. Di cui loro sono i prosecutori del culto, per quanto ne critichino ad oggi le conseguenze, non hanno mai fatto in modo che ciò che successe in quella scuola potesse essere in qualche modo rivisto o evitato.
Eppure Acab non è solo violenza, caschi e manganelli, è una storia che si ripete, non c’è evoluzione, non ci sono prospettive, l’unica cosa che si accresce è la rabbia. I personaggi preferiscono dare una lucidata alla fedina penale più e meglio di quella che alcuni di loro portano al dito.
La storia italiana, gli eventi di cronaca nerissima hanno un sotto-testo quasi neorealista: il sentimento fascista è uno strato sottile e non disturbativo, la critica che viene mossa è operata all’interno della famiglia, dei suoi valori dei ruoli che crollano, si sciolgono come montagne di neve. La luce che si abbatte non è chiarificatrice, non porta purezza, si fa strada tra le vergogne, nelle schifezze ad intersezione tra il nostro passato e il loro presente.
L’unica cosa che sembra stare in piedi è la vicinanza fraterna, il celerino anteposto alla famiglia, alla giustizia, al lavoro. Sono un gruppo coeso che non ha più nulla, che brancola nel buio e confida unicamente nella fiducia in quel settimo nucleo di ingrata memoria.
Sollima è un musicista, raffinato e sottile. Blocca corpo e anima con sguardi e parole troppo reali perchè non ti feriscano; ma non sei ancora pronto a sanguinare, quindi come un epilettico o un serpente al suono della melodia ti muovi nella direzione delle sue note. Ti sincronizzi con lui, con le storie, con l’aria che respirano e con ritmo ridondante e vorticoso ti seduce. Sollima è pericoloso. Ti farebbe credere qualsiasi cosa.
Le storie, la nostra storia, ne fa uso come un profumo ma ne cambia l’essenza. Usa la storia creando altre storie vicine, credibili con un velo di fantasia ma mai false.
Roma è una madonna suicida che chiede in ginocchio ai suoi figli “liberatevi di me”.
La casa subisce uno straniamento: un uomo che affronta la separazione, uno che vive con le foto di Mussolini, uno in procinto di sfratto e un altro che assiste alla ribellione del figlio, estrema e puntuale e che decide di abbandonare tutto e tutti. Non è confortante apprendere dell’assoluta incapacità e impotenza degli uomini di oggi nel conferire un’educazione blanda da un lato e dal sorprendersi della diffusa indifferenza verso di loro dall’altro.
Le loro sono grida d’aiuto che rimangono incompiute e inascoltate. Le cose non cambiano, il volto buio non trova soluzioni, mancano alternative, non ne hanno mai avute. L’unica mano che protende viene dal basso, la vita a volte ti costringe ad accettarla, pur di cambiare, preferisci scendere di un piano che continuare a raschiare il soffitto.
Sollima si è affidato spesso a due scrittori, Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo. Un tridente inattaccabile. Il primo lo ha affiancato con la stesura di Acab, il secondo con la serie Romanzo criminale. Per poi incrociarsi sub-urbe, in Suburra.
Opere affascinanti, ma diverse. Poiché Romanzo criminale è epico. Acab è lirico.
L’epica di Romanzo Criminale è dettata dagli accadimenti storici non proprio gloriosi ma pur sempre vividi della Banda della Magliana, eventi che detengono un gusto per la realtà per la rappresentazione umana, con un respiro più lungo, dettagliato e allegorico. L’uomo che si ritrova a guardare quelle scene non può che esserne rapito, conteso tra mille contraddizioni, perché loro non sono tanto lontani da noi, dall’uomo che può sbagliare, che fa scelte che noi potremmo tranquillamente adoperare o che abbiamo già inconsciamente adottato. Romanzo criminale è ieri, è oggi, è uno specchio sull’asse temporale Andreotti-Moro.
Acab ha un contesto più minimalista, perché tergiversa meno sul lato storico della narrazione, che non è pleonastica ma funge da direttiva, da moto uniforme, dando spazio all’individualità, all’io. Si ha una predilezione per il dramma personale, le loro storie hanno una risonanza maggiore.
Ma le domande che il pubblico, che l’Italia si è posta non trovano ancora una risposta esaustiva.
Dove comincia la libertà di un celerino a difesa di sé e dove sfocia poi realmente?
Dove si inserisce la vendetta in un contesto in cui si guarda una partita di calcio, o si cammina per strada, o si partecipa ad un presidio e la cosa poi si scatena, degenera e troppe volte si finisce per piangere e declamare l’evitabilità di una perdita di una o più vite?
Sollima non si esprime, o meglio dà pareri quante sono le storie che decide di contestualizzare, quindi questo film lo si può vedere sotto due prospettive. Lo stato d’odio che imperversa nel nostro paese, che ha sconfinato e non appartiene solo ai campi di calcio o ai campi rom. Un odio che viene scatenato, spinto, provocato da chi sa e gli conviene e poi quell’odio che viene adottato all’occorrenza da chi ha una volontà ancora da plasmare, dalle menti deboli, come una squadra di cecchini pronti a sparare, pronti all’uso.
E voi avete scelto a quale rabbia appartenere? O credete realmente che la cosa non abbia minimamente coinvolto le vostre vite?