Roma FF18 – Achilles: recensione del film di Farhad Delaram
L’esordio al lungometraggio dell’autore di Like the last day e Tattoo, presentato alla 18a edizione della Festa del Cinema di Roma è cinema politico ingenuamente camuffato da road movie a tinte thriller. Tra minimalismo estetico e destrutturazione narrativa, Achilles si perde, vittima delle sue stesse spropositate ambizioni, cercando di dire molto, senza tuttavia riuscire a farlo. Progressive Cinema
Sulla parete della camera da letto di Farid (Mirsaeed Molavian), l’enigmatico protagonista sprovvisto di reale identità e professione, osserviamo il poster de Il grido di Michelangelo Antonioni e sui mobili, quei pochi presenti, montagne di libri, ciascuna delle quali apparentemente a tema cinema. Un ingresso improvviso nella sfera privata di Farid che giunge inaspettatamente ben oltre la prima metà di Achilles, l’esordio al lungometraggio di Farhad Delaram, dopo un lungo percorso nella realtà cinematografica dei corti.
A partire dalle primissime sequenze risulta evidente quanto Achilles non desideri in alcun modo svelare allo spettatore che cosa in realtà faccia – o sia – il suo giovane protagonista Farid, inizialmente un medico, poi un infermiere, e ancora un filmaker, finendo per il ruolo probabilmente meno atteso eppure idealmente raggiunto nel corso del film, quello dell’eroe.
Road Movie e Cinema di denuncia. Un viaggio a due
Passando per cupe e desolate stanze d’ospedale, fino a strade soleggiate e altrettanto solitarie, l’esordio di Delaram, fortemente contaminato in termini di gioco e intreccio tra i generi, si muove incessantemente tra il dramma intimistico in sottrazione, il road movie più classico seppur riletto dall’immaginario cinematografico iraniano, il cinema di denuncia sociale e politica capace di riflettere tanto sul tema dei confini, quanto del ruolo della donna in tali contesti, e infine il thriller.
Se infatti la mancanza di costruzione identitaria – o più in generale di caratterizzazione – del protagonista Farid sembri inizialmente poter stancare, spingendo lo spettatore a porsi decisamente più domande di quante saranno in seguito le risposte in merito al suo reale scopo nel film, a mutare ferocemente ciascuna logica e dinamica è la giovane e logorata Hedieh (Behdokht Valian), una prigioniera politica che confinata nel reparto psichiatrico dell’ospedale in cui Farid presta servizio notturno, resta in attesa di un modo per fuggire, tornando alla libertà.
Prevedibilmente i destini di Farid e Hedieh sono destinati ad intrecciarsi, dando vita ad un complesso, spigoloso e misterico viaggio a due fatto di ritorni alle origini, pericoli scampati e ricerca disperata di un nuovo ruolo nella società, in un contesto sociale che ha sempre fatto di tutto per impedirne la riuscita a chiunque si esprimesse in senso contrario.
Non vi è alcun confine inquadrato, né tantomeno espliciti riferimenti al contemporaneo iraniano nel film di Delaram, eppure gli intenti dell’autore di Like the last day e Tattoo sono chiarissimi. Achilles è cinema politico, che si ritrova suo malgrado a doversi celare tra logiche narrative solamente abbozzate e mai definite. Ecco perché il viaggio a due non è mai davvero tale. Di Farid non vi è che l’ombra e tutto ciò che conta è Hedieh. Spiace però avvertirne tale importanza solamente alla conclusione del film.
Achilles: valutazione e conclusione
Non è chiaro a quale modello narrativo di fatto Farhad Delaram aspiri, ciò che però risulta evidente è la confusione di un esordio, che vittima delle sue stesse spropositate ambizioni, ce la mette davvero tutta e anche piuttosto ingenuamente pur di far propri i linguaggi e le strutture dei generi precedentemente citati, senza tuttavia vestirne i panni fino in fondo, vuoi per mancanza di mezzi, oppure di coraggio.
Per questa ragione, nel corso del lungo e complesso viaggio a due, intrapreso da Farid e Hedieh, di momenti memorabili o altrimenti significativi non sembra essercene nemmeno l’ombra, in un vuoto cosmico che guardando al cinema di Michelangelo Antonioni e Jafar Panahi, dimostra ben presto di non possedere alcuna reale impronta persona ed autoriale, accontentandosi di replicare modelli cinematografici inevitabilmente storici, dunque irripetibili ad esso totalmente estranei.