FESCAAAL 2021 – Adam: recensione del film di Maryam Touzani
Poggiato sullo stereotipo narrativo non proprio originale dell'incontro-cambiamento, Adam è l’emozionante esordio di una regista capace di avvicinare lo spettatore all’anima dolorante ma vitale delle sue protagoniste. Dal Marocco, al FESCAAAL 2021.
Più una storia è ‘semplice’ e più complesso sarà il tentativo di renderla originale. Costruire un film su una narrazione rodata – e in alcuni casi abusata – infatti, è un salto mortale che non sempre atterra su rete sicura e il capitombolo verso l’anonimato in alcuni casi è fatale. In quello di Adam, esordio di finzione della regista marocchina Maryam Touzani, presentato a Berlino 2020 e ora in concorso al FESCAAAL nella sezione dedicata alle cineaste “Donne sull’orlo di cambiare il mondo”, tutto sommato la caduta si trasforma in slancio coraggioso e la storia consumata sull’incontro-cambiamento tra due umanità acquista un valore aggiunto, tramutandosi in racconto emozionale sull’elaborazione del lutto e la maternità. Per il film dalla lunga gestazione, la Touzani afferra un ricordo del suo passato, quando molti anni fa una donna incinta bussò alla porta di casa dei suoi genitori e venne accolta sino alla nascita del suo bambino – per poi lasciare tracce indelebili sulla memoria della regista. Una vicenda maturata ed elaborata col tempo, sviscerata in seguito con la sua esperienza personale di maternità, diciassette anni dopo quell’incontro.
Adam: biografia di un incontro
Di Adam, dunque, la regista e sceneggiatrice, fa del tratto biografico anche denuncia sociale, denotando un Marocco ancora saldato su reconditi preconcetti e moralismo, che vede le donne non sposate di sottocchio, figurarsi quelle incinte e senza marito. A subire gli sguardi di disapprovazione tra i cunicoli labirintici di Casablanca, Samia (Nisrin Erradi) si muove appesantita dal camminare e dal pancione ormai in scadenza, offrendosi per piccoli mestieri finché il suo corpo lo consente. Accolta finalmente da Abla (l’attrice Lubna Azabal, incredibilmente somigliante a Isabelle Huppert per il suo volto algido), la giovane entrerà in contatto con una donna impassibile, coriacea, metodica, stretta in una routine stringente e ordinaria, costruita sulla panificazione nella sua bottega artigianale e il controllo metodico alla resa scolastica dell’unica figlia Warda.
Da cosa derivi quell’attitudine di resistenza e quello scudo aizzato a riparo da qualsiasi sorta di godimento vitale, Samia lo comprenderà solo quando l’altra deciderà di consegnare autonomamente il suo lutto improvviso di un marito partito e non più tornato. A scalfire la pietra del dolore dal quale Abla si sta riparando da anni, Samia, dal canto suo, dovrà affrontare un parto in casa e la decisione di dare il piccolo in adozione: unica via per privarlo di un futuro d’emarginazione perché figlio illegittimo.
Confini e privazioni femminili
Storia sull’incontro-cambiamento tra due persone si diceva, narrazione più che familiare, eppure qui dotata di una vitalità, lavorando in sottotraccia, capace di toccare corde profonde e, in ultima istanza, emozionare. A quegli sguardi di disapprovazione della comunità marocchina, la Touzani risponde con il suo, posto su primi piani delle due splendide attrici ad indagarne l’interiorità e sull’attenzione riposta nella manualità sensoriale della panificazione tradizionale fatta di forme e odori locali. È grazie (e tramite) la domesticità che le sue donne si (ri)conoscono e iniziano a condividere una condizione sociale, culturale e religiosa che le accomuna nel confinamento, privando dunque le donne di partecipare al rito funebre dei mariti o negandole la possibilità di crescere figli all’infuori del matrimonio.
Senso materno e (autentica) commozione
“La morte non appartiene alle donne” dirà Samia, perché alle donne compete la vita che spesso però concilia con la perdita. E se la morte i sensi li sopisce tutti, alla nascita spetta invece la riscoperta degli stessi e la regista costruisce tra armonia e rifiuto, una parte finale di grande pregio e umanità, commovendo su una maternità appena manifestata ma incapace di creare il primo legame carnale tra madre e figlio, perché figlio, quel neonato, non potrà mai esserlo. Adam è allora un film sul tatto, una storia ‘che tocca‘: di mani che sfiorano la pancia, che impastano, di seni pronti ad allattare, di mani che truccano gli occhi. Di corpi femminili riflessi sullo specchio ritrovando la loro bellezza e la complicità poderosa del gusto per la vita.