Addicted – Desiderio irresistibile: recensione del film di Bille Woodruff

Il film del 2014 diretto da Bille Woodruff, Addicted  ̶  Desiderio irresistibile, vorrebbe parlare di dipendenza sessuale ma non riesce a trattenersi e (s)cade nel melò erotico glamour e superpatinato. Dal 14 marzo su Netflix.

Era il 1981 e in Italia veniva pubblicato Per l’amore di un gitano, il primo romanzo della collana di narrativa rosa Harmony. Il libro, allora edito da Arnoldo Mondadori, rappresenta l’archetipo di una lunga tradizione letteraria, nata con i romanzi rosa europei a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, poi esplosa definitivamente con i cosiddetti bodice ripper degli anni ’70. Questi ultimi infatti, grazie ad una componente erotica ed evocativa decisamente più accentuata del loro filone originale, conquistarono una enorme platea di lettrici che, proprio nell’iperbole espressiva del dettaglio erotico ed euforico, trovava la rievocazione proibita e proibitiva di sensazioni sopite o più semplicemente inesprimibili. I bodice ripper, letteralmente “strappatori di corpetto” oggi trovano la loro forma compiuta e molto più aggressiva con i romanzi erotici, quei guilty pleasure inconfessabili da leggere di nascosto, e decisamente molto più spinti rispetto a quelli riconducibili agli anni ’70 grazie all’inserimento di storie ad alto tasso di sesso estremo, bondage, ménage-à-trois, sadomasochismo e altre pratiche BDSM. Una tentazione che ha solleticato anche il cinema, ultimo esempio in ordine cronologico la trilogia di Cinquanta Sfumature tratta dai romanzi di E.L James, caposaldo di una tendenza cinematografica che da lì in poi scardinò pudori, pulsioni e freni inibitori diventando prodotto mainstream e popolarissimo.

Sulle orme di Shame, ma radicalmente indietro

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Un preambolo, questo letterario, necessario alla piena comprensione di un film risalente al 2014 e diretto dal giovane regista di Beauty Shop e The Perfect Match Bille Woodruff. Addicted – Desiderio irresistibile, disponibile sul catalogo Netflix dal 14 marzo, si prefigge l’arduo compito di raccontare le origini e le conseguenze di una delle dipendenze contemporanee più diffuse: l’ipersessualità o la dipendenza sessuale. Classificato come disturbo psicologico o comportamentale, questa patologia ossessiva è stata già al centro di Shame, secondo lungometraggio di Steve McQueen del 2011, il quale aveva trasposto in modo simbolico e autentico – forse come non aveva mai fatto nessuno prima di allora – la depravazione e l’abisso morale nel quale era caduto il suo protagonista Michael Fassbender, totalmente asservito al raggiungimento di quel piacere carnale che non era mai abbastanza. Addicted – Desiderio irresistibile, vorrebbe (o dovrebbe) perseguire lo stesso intento psicologico del suo predecessore, ma il risultato è un Harmony semi-soft porno soporifero e per nulla femminista.

Addicted – Desiderio irresistibile: insaziabilità carnale e sensi di colpa al femminile

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La trama non potrebbe essere altrimenti. Zoe Reynard, interpretata da Sharon Leal, è una caparbia agente di artisti emergenti, madre di due bambini, figlia di una mamma amorevole e moglie di Jason (Boris Kodjoe) prestante architetto e padre premuroso. L’intesa sessuale fra marito e moglie non soffre alcuna fase di assopimento anzi, i due sono soliti ‘praticare’ diverse volte al giorno, come racconta lei stessa alla sua terapista, visibilmente stupita del desiderio di coppia anomalo per essere frutto dell’unico uomo mai transitato nella vita della paziente. Il ménage famigliare e dunque lineare di Zoe però inizia a compromettersi quando, durante un vernissage, incontra il biondo artista di origini spagnole Quinton Canosa (William Levy).

Nonostante il primo, unico e vano tentativo di resistenza, fra i due s’infiamma la miccia del desiderio libidinoso, i corpi esploderanno nel godimento reciproco, e il bel pittore farà da contraltare all’insaziabile fame sessuale di Zoe siccome il marito, prima ancora di lui, non è riuscito a colmare. Inizia allora il senso s’insoddisfazione coniugale, la colpa verso i figli, l’ossessione e lo smarrimento precario per qualcosa che sta iniziando a sfuggire di mano. Il fascino del proibito è solo la pallida apertura verso il basso, giunge poi il sesso occasionale nei bar, i locali per scambisti, le droghe, i porno; Zoe viene meno ai suoi doveri di madre, perde le redini del suo lavoro, il suo matrimonio è in bilico. La redenzione, anzi la realizzazione di avere un problema e di chiedere aiuto ad un professionista, coincide però con un pre-finale tragico risolutore incespicato ma rivelatorio di un trauma infantile il quale, forse, ha generato la dipendenza.

Poco sguardo, troppo glamour

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Costruito su basi melodrammatiche, intenzionalità psicologica ed evocazione erotica, il film di Woodruff sarebbe potuto essere il riflesso al femminile di un discorso stimolante su un tipo di dipendenza ancora poco esplorata rispetto a molte altre riconducibili al folto filone cinematografico degli addiction-drama. Se solo avesse avuto uno sguardo più autoriale o semplicemente più angolare, Addicted – Desiderio irresistibile avrebbe infatti potuto rendere visibili molte donne che soffrono di una patologia ancor più stigmatizzata rispetto ad altre condizioni psicologiche, proprio perché il sesso è elemento di per sé fortemente intimo e velato da un senso intrinseco di vergogna. Il regista, invece, dirige un film che evita accuratamente di trascinarsi nel lato più oscuro e degradante della dipendenza, scegliendo piuttosto un tono patinato e a favore di camera che nulla ha di autentico.

La condizione di Zoe sembra sterile pretesto per l’inserimento di scene hot semiologicamente pensate per solleticare i sensi e i desideri degli spettatori, mostrando corpi aitanti, pizzi trasparenti, glutei muscolarmente prestanti. È il lato estetico e non quello etico ad emergere, quello superficiale, scarno d’introspezione e sofferenza autentica mostrata nella sua incapacità di denudare la reale componente di assuefazione, inerzia e sottomissione al piacere sessuale. Così facendo il problema di Zoe (e quello del film stesso) si riduce nel proiettarsi e diramarsi non su sé stessa come entità a sé stante, bensì sulla ormai incapacità della protagonista di soddisfare appieno le componenti pre-dipendenza del suo essere oggetto-moglie, madre e figlia. Come se il vero calvario della donna, non fosse la degenerazione umana e personale dell’asservimento sessuale ma piuttosto il venir meno di caratteristiche femminili che rendono tale una ‘brava donna’. Esagerare nell’hard non vuol dire parlare di dipendenza sessuale. Semmai lo è mostrare come questa privi della propria soggettività. Altrimenti meglio leggersi un Harmony.

Regia - 2
Sceeggiatura - 1.5
Fotografia - 2
Recitazione - 1.5
Sonoro - 1.5
Emozione - 1.5

1.7