Cannes 2021 – After Yang: recensione del film con Colin Farrell
Kokonada confeziona un film di fantascienza credibile con un reparto visivo impeccabile.
In un mondo futuribile, Yang è parte integrante della famiglia di Jake (Colin Farrell), Kyra (Jodie Turner-Smith) e Mika (Malea Emma Tjandrawidjaja): il bot antropomorfo è stato infatti acquistato subito dopo l’adozione di Mika, per farla crescere cosciente del suo bagaglio culturale cinese, paese da cui proviene. Il rapporto dei quattro è a tutti gli effetti quello di una famiglia, in cui Yang funge da collante tra gli altri membri. Così, quando un misterioso guasto mette fuori uso il robot Jake, cercando di arginare la disperazione crescente soprattutto di Mika, corre a provare a ripararlo. Esplorando i meccanismi interni a Yang, però, emergono anche ricordi e segreti inaspettati, che mettono a dura prova il rapporto tra Jake e Kyra. After Yang è un film credibile e realistico nonostante tutta la fantascienza che propone, in linea con le altre opere del regista Kogonada. Presentato al Festival di Cannes 2021 nella sezione Un certain regard, After Yang si contraddistingue per un’estetica inconfondibile e un frequente ricorso all’ironia nonostante la tristezza che aleggia nella casa di Jake, Kyra e Mika.
After Yang consolida l’estetica vivace e dinamica di Kogonada
L’inizio di After Yang impone il livello da mantenere e Kogonada decide di settare le aspettative molto alte fin dai primi minuti del film. Estetica dai colori saturi, attenzione ai più minimi dettagli, ritmo e introduzione avvincenti definiscono l’incipit del film da cui, va da sé, ci si aspetterebbe un continuo salto estetico e filosofico capace di rendere tangibile una realtà che, sebbene molto vicina alle nostre possibilità, ancora non si avvera. Sfortunatamente, questo accade solo a metà.
La meticolosa attenzione posta ai dettagli della scenografia e dell’architettura della storia stessa perde mordente dopo circa un’ora di film in cui iniziano a proporsi iterazioni di episodi già visti (o almeno accennati) che promettono di inserire filoni narrativi totalmente nuovi nonostante una struttura di base già impostata e in buona parte consumata. Si ha in qualche modo la sensazione che un’eccessiva attenzione alle minuzie abbia per contro inficiato la fluidità e il ritmo del risultato complessivo. Resta difficile, comunque, non apprezzare il risultato finale costruito da Kogonada, sia per le performance dei protagonisti che rendono giustizia ai loro personaggi, sia per gli spunti riflessivi che la trama propone. Probabilmente non la più importante, ma senz’altro emblematica soprattutto per le contingenze sociali che stiamo affrontando, è quella sull’identità culturale: Yang non si pone mai dubbi e questioni sulla sua natura di robot, bensì si domanda senza darsi risposta cosa significhi essere cinese per lui, visto che la Cina (come tutto il resto) per Yang si traduce in una serie infinita di aneddoti cui non rispondono vere sensazioni fisiche. Lui è stato progettato e costruito per essere cinese con un semplice pannello di impostazioni, quindi cos’è che definisce realmente la sua identità?
After Yang è in corsa per la Camera d’oro a Cannes 2021
A far da contraltare a questa grossa densità di temi esistenziali che Kogonoda mette in campo, il regista continua a definire il suo stile estetico arricchendo After Yang con un reparto visivo impeccabile: dalla scenografia ai costumi, dalla musica alle scelte cromatiche, tutti questi aspetti si risolvono in modo omogeneo e senza difetto alcuno. Si tratta veramente di un’occasione mancata, in cui probabilmente l’anello debole della catena è da individuare in una scrittura molto concentrata sui dettagli e molto meno sulla fluidità e sulla struttura complessiva, che di conseguenza risulta sbilanciata tra una prima e un’ultima sezione molto convincente e una parte centrale sfilacciata e distratta.