Agente 007 – Mai dire mai: recensione del film con Sean Connery
Uno 007 apocrifo, ma più vero del vero: nel 1983 – a 12 anni dall'addio al personaggio – Sean Connery riveste i panni di James Bond, per un'ultima autoironica e irresistibile missione segreta.
La genesi produttiva di Agente 007 – Mai dire mai ha del leggendario: capitolo apocrifo rispetto alla saga originaria, uscito nelle sale a sei mesi di distanza da Octopussy – Operazione piovra con Roger Moore e “scomodo” remake del cult Agente 007 – Thunderball (1965), il film di Irvin Kershner fa riverstire i panni dell’agente doppio 0 a Sean Connery a 12 anni dalla sua ultima apparizione. Una sorta di James Bond versus James Bond, nato in seguito ad una disputa legale vinta da Kevin McClory – coautore del romanzo Operazione tuono – contro la MGM per i diritti.
Così, mentre le avventure del “vero” agente segreto proseguono col capitolo numero 13, a rovinare la festa ci si mette uno 007 finto ma verissimo, talmente tanto da essere interpretato dal Bond per eccellenza traendo spunto da un soggetto autorizzato e ufficiale. Lo scarto è, essenzialmente, nel tono, a partire dal titolo: Mai dire mai gioca con le stesse affermazioni di Connery, che nel 1971 aveva chiaramente affermato che non sarebbe mai più stato James Bond. Salvo poi tornare sui suoi passi.
Agente 007 – Mai dire mai:
Fare fuori tutti i radicali liberi
Per i fan più ligi e severi, questo Never Say Never Again rappresenta e ha sempre rappresentato un bel problema, un po’ come accadde per il Casino Royale del 1967 (in cui l’Agente è interpretato da David Niven). Non è un caso che entrambi possano essere ad esempio definiti film apertamente comici e satirici: il tentativo di sabotaggio e sfida alla serie originale è palese, e mette in discussione la credibilità stessa del personaggio nell’esercizio delle sue funzioni. L’idea stessa di 007 contiene il british humour, è vero, ma mai lo avevamo visto così in panne e imbolsito, al punto da – metacinematograficamente ed estremamente autoironicamente – essere costretto ad inizio pellicola ad una riabilitazione per rimettersi in forma ed eliminare tutti i radicali liberi che lo stanno rallentando.
L’ammiccamento con ciò che è stato e con la sua condizione attuale è continuo: anche il James Bond del film è fermo da oltre una decade proprio come Connery, ed è over 50 come lui (53, per l’esattezza). In Mai dire mai viene quindi introdotto un concetto finora mai tenuto in considerazione: e se l’Agente Segreto al servizio di Sua Maestà invecchiasse come tutti (come sarebbe logico pensare), invece della ben poco verosimile rappresentazione canonica in cui appare eterno e inscalfibile nonostante passino inevitabilmente i lustri? In fondo quello incarnato da Sir Sean è (stato) lo 007 più umano ed empatico di tutti, quello dal lato emotivo più spiccato. Soprattutto se messo a confronto con i villain granitici e gelidi che ha sempre dovuto affrontare.
Spia e lascia spiare
La trama di Mai dire mai, in tutto questo, è pressoché trascurabile: si narra di un diabolico piano terroristico ordito dalla temibile organizzazione criminale SPECTRE (alla sua ultima apparizione fino allo 007 – Spectre del 2015 con Daniel Craig), che minaccia le potenze occidentali dopo essersi impossessata di due missili nucleari sottratti da una base NATO. Compito di Mr. Bond è ovviamente quello di sventare la minaccia, con il consueto aplomb e la solita faccia tosta. Mai come in questo caso, però, è il contorno a costituire l’elemento portante del film, tra improbabili dispositivi tecnologici, persistenti ammiccamenti alla cinepresa (soprattutto in coincidenza delle ingiustificate conquiste femminili) e momenti cult / scult consegnati al mito (la sequenza del massaggio a Kim Basinger, il tango appassionato, la sfida ai videogame).
Raramente – probabilmente mai – si è visto uno 007 così strafottente, così allergico alle convenzioni e ai suoi stessi topoi fondativi (perché, in fondo, ogni tanto al Vesper Martini si può anche rinunciare). Per far sì che lo scherzo e la burla funzionino è necessario che il pubblico stia al gioco, e in questo il lavoro di Kershner gira alla perfezione. Anzi, di più: gira nell’unico modo possibile, schivando egregiamente il pericolo della lesa maestà da un lato e tenendo miracolosamente in piedi il necessario respiro da spy-story dal vago gusto retrò dall’altro, con aggiunta di raffinate location esotiche (Bahamas e Costa Azzurra). Connery – stavolta sul serio – non sarà mai più l’Agente Segreto per eccellenza, ma la sua capacità di prendere in giro se stesso e il personaggio che l’aveva reso famoso ha fatto scuola, originando nuove generazioni di spie sia all’interno che all’esterno della saga.