Alaska Baby: recensione del documentario su Cesare Cremonini
Guardare Alaska Baby è come sfogliare un diario scritto con inchiostro di stelle. Alaska Baby, di e con Cesare Cremonini, è disponibile in streaming su Disney+ dal 18 dicembre 2024.
Immaginate un viaggio che inizia al calore della vostra terra natale, si snoda tra le vie polverose e dense di storie dell’America profonda, e si conclude sotto la luce incantata dell’aurora boreale. Alaska Baby, il documentario che Cesare Cremonini ci regala su Disney+, non è soltanto il racconto di un album. È una danza di luci e ombre, un peregrinare fisico ed emotivo in cui il confine tra geografia e anima si dissolve, lasciandoci sospesi tra il qui e l’altrove.
Alaska Baby è pura magia
La narrazione si apre sulle nebbie dell’Emilia-Romagna, quasi un sipario naturale che si solleva per rivelare non un uomo, ma una storia. Cremonini, ormai un maestro nel trasformare il personale in universale, ci invita a seguirlo in questa odissea. Non ci sono formule o artifici: solo la realtà nuda, cruda, ma capace di commuovere con la stessa intensità di un’alba improvvisa.
E poi, l’Alaska. Ma prima ancora, l’America. Da New York a Nashville, passando per Memphis e Los Angeles, ogni tappa è una nota su un pentagramma di emozioni. Qui, le città diventano personaggi: New York non è solo una metropoli, è una musa dalle mille facce; Nashville è un ventre materno da cui sgorgano suoni e memorie; Los Angeles, infine, una sirena ingannevole, luminosa ma intrisa di malinconia.
Le immagini scorrono lente, quasi a volerci lasciare il tempo di respirare insieme a Cremonini. Ogni inquadratura – un cielo carico di nuvole, una strada deserta, un volto riflesso in una finestra – si carica di simbolismo. È un cinema di dettagli, quello di Alaska Baby. Qui non c’è fretta di narrare, perché ogni fotogramma è una confessione, un frammento di poesia.
E poi arriva l’Alaska, la meta e la metafora. Sotto un cielo che sembra non avere confini, Cremonini si abbandona al silenzio. È un silenzio denso, quasi sacro, che sembra parlare più forte di qualsiasi parola. Le aurore boreali non sono soltanto un fenomeno naturale: diventano il culmine di un viaggio, la materializzazione di una luce interiore che Cremonini ha cercato, trovato, e ora condivide con noi.
La regia, pur essendo essenziale, ha il pregio raro di farsi invisibile. Le transizioni tra i paesaggi non sono mai brusche: tutto fluisce, come se fosse la natura stessa a guidare la narrazione. Il documentario riesce così a catturare l’intangibile, a dare forma ai momenti in cui la musica nasce, in cui un’idea prende vita e diventa canzone.
E la musica, naturalmente, è il cuore pulsante di Alaska Baby. Ogni brano, ogni accordo, è il capitolo di un racconto che oscilla tra il sussurro e il grido. Il sound dell’album – un mix sapiente di brit-pop, rap ed elettronica – si riflette nell’estetica visiva del documentario, creando un’armonia perfetta tra ciò che vediamo e ciò che ascoltiamo.
Ma quello che rende Alaska Baby un’esperienza unica è la vulnerabilità di Cremonini. Si espone senza filtri, permettendoci di intravedere non solo l’artista, ma l’uomo. I dubbi, le paure, il desiderio di superare sé stesso: tutto è lì, sotto i riflettori, ma senza artifici. La sua è una nudità che non chiede comprensione, solo partecipazione.
Alaska Baby: valutazione e conclusione
Alaska Baby non è solo un documentario, e nemmeno un manifesto musicale. È un invito a perdersi e ritrovarsi, a lasciare che la luce entri nelle crepe, a danzare nel buio fino a che l’alba non ci sorprenda. Cremonini non ci offre risposte, ma domande. Non ci mostra la strada, ma ci accompagna lungo il percorso.
Guardare Alaska Baby è come sfogliare un diario scritto con inchiostro di stelle. Ogni pagina, una lezione. Ogni immagine, un respiro. Ogni nota, un pezzo di noi stessi che si riflette nell’infinito. Perché in fondo, come ci insegna Cremonini, l’Alaska non è solo un luogo: è uno stato d’animo, una promessa, un sogno che non smette mai di chiamarci.