Alien – Romulus: recensione del film con Cailee Spaeny
Fede Álvarez dirige, Cailee Spaeny interpreta in Alien: Romulus, il nuovo capitolo del franchise ambientato tra i classici del 1979 e del 1986. In sala, tra recupero del passato e claustrofobia horror, dal 14 agosto 2024.
Il primo Alien, 1979 e regia di Ridley Scott, usciva accompagnato da una frase di lancio passata alla storia: “Nello spazio, nessuno può sentirti urlare”. Anche il marketing, alle giuste condizioni, diventa arte; ma non funzionò soltanto per la micidiale sincerità del messaggio. Senza dare via nulla della trama, nella combinazione di poche azzeccate parole c’era un film intero, fissato nella sua perversa natura di incubo claustrofobico, sporco e maledettamente inquietante. Quando arrivò il momento del secondo, fortunato, Aliens – Scontro finale (1986), non servivano più frasi a effetto. C’era il vento in poppa del primo film, una nuova firma d’autore, James Cameron, e la cifra stilistica di un thriller-action in sintonia con i tempi. Regge bene, a distanza di anni, anche a guardarlo dallo specchietto retrovisore.
Il 14 agosto 2024 arriva nei cinema italiani, distribuisce The Walt Disney Company Italia, Alien: Romulus. Regia di Fede Álvarez (La casa, Man in the Dark) e con Cailee Spaeny, Isabela Merced, David Jonsson. La parola è midquel; ha un suono abbastanza orribile, ma aiuta a orientarsi. Midquel, cioè sequel situato nell’intervallo di tempo tra il film del 1979 e quello del 1986, incentrato su avvenimenti trascurati dagli altri due film, con nuovi personaggi, gli stessi sfondi e le solite minacce. Alien: Romulus non ha bisogno di frasi di lancio da consegnare agli annali. Gli basta essere lì, a metà strada tra due capisaldi della fantascienza/ horror/ thriller, provando a prendere il meglio da entrambi. Forse è questa la frase di lancio: tornare ai classici, per “rubare” quanta più bellezza (e paura) si può.
Alien – Romulus: una nave alla deriva, con una sorpresa a bordo
Rubare (furto cinefilo, non perseguibile), certo: per fare cosa, poi? È il grande problema del cinema contemporaneo, cinema commerciale contemporaneo. La difficoltà, a volte l’aperto rifiuto, a rielaborare le il passato e le sue forme per creare, non il nuovo, sarebbe chiedere troppo, ma un minimo di passabile originalità. Il primo Alien (1979) sapeva dove pescare: la rivalutazione del genere (sci-fi) operata da Stanley Kubrick con 2001 – Odissea nello spazio, il ritorno a una dimensione di puro spettacolo (Star Wars) da omaggiare e contestare, senza dimenticare il debito di riconoscenza nei confronti della cara, vecchia e per niente innocua fantascienza di ieri (Terrore nello spazio, 1965, Mario Bava). Di suo, ci metteva l’oppressione dell’horror che non lascia vie di fuga alla paura, il realismo sporco e senza fronzoli di ambienti e psicologie – uno dei tesori più preziosi del cinema anni ’70, da recuperare subito – e, soprattutto, una protagonista insuperata per carisma, profilo e caratterizzazione.
Sigourney Weaver resta l’archetipo della “donna forte” cinematografica, depurata dai limiti sessisti che hanno inquinato il modello fino ai giorni nostri. La sua Ripley era brutale, realistica, ma non mancava di grazia, poesia e profondità di carattere. Con molti ringraziamenti al secondo capitolo, Aliens – Scontro finale, che sacrificava quel tanto di atmosfera e fascino perturbante in favore di una progressione narrativa più secca, usando le pulsazioni della storia per lavorare – meglio e più a lungo – sull’interiorità dei personaggi. Fede Álvarez dirige Alien: Romulus dopo averlo scritto, insieme al fidato collaboratore Rodo Sayagues. La prima cosa che ruba, ai predecessori, è la caratterizzazione femminile di rilievo.
Si chiama Rain e la interpreta la brava e lanciatissima Cailee Spaeny. Per lei, fino a qui, una stagione importante cominciata con il biopic d’autore (Priscilla) e perfezionata dall’incubo fantapolitico di risonante attualità (Civil War). La sua arte è un nervoso esercizio di vulnerabilità emotiva, testa sulle spalle e spietato istinto di sopravvivenza. Rain ha perso i genitori, le resta accanto soltanto Andy (David Jonsson), un ”sintetico” programmato dal padre per prendersi cura di lei, fratellone robotico dall’acuta sensibilità. La vita di Rain è a un punto morto. Per questo accetta la proposta di un gruppo di amici, tra cui Tyler (Archie Renaux) e Kay (Isabela Merced) e si dà alla colonizzazione dello spazio. Trovano una nave spaziale alla deriva. Credono sia disabitata. Non è così. Una minaccia aliena affamata li aspetta. Non c’è bisogno di sapere altro. L’asciuttezza della narrazione è il primo evidente segnale della volontà di Fede Álvarez di riportare, film e franchise, alle basi emotive, estetiche e psicologiche. Alien: Romulus è cinema che pensa se stesso. Si chiede, ci chiede, di capire il genere e le sue convenzioni, i limiti e le possibilità di un certo tipo di storia. Come molto di quello che è contemporaneo, sa come prendere in prestito dal passato. Fatica di più quando si tratta di aggiungere.
Da Ridley Scott a Fede Álvarez, come cambia, senza esagerare, l’immaginario del franchise
È il mondo cinematografico di Ridley Scott e ci viviamo dentro. Sue le regole, suo il respiro, sua la sensibilità imperante. E suo il paradigma da sfidare, per tenere vivo il franchise. Alien: Romulus è il nono film in totale, il settimo in un’accezione pignola, giacché due sono cross over (Alien + Predator) e qui contano relativamente. L’ultimo, in ordine di tempo, arrivava sette anni fa e si chiamava Alien: Covenant (2017). Sempre Scott alla regia, come per il precedente Prometheus (2012); in entrambi i casi, eufemisticamente, più ombre che luci. Stavolta c’è ma non si vede, Ridley Scott. Sorveglia da lontano, fa il produttore – nel frattempo, 87 anni, sta terminando Il Gladiatore II, complimenti – per lasciare spazio a una visione nuova, a uno sguardo diverso. Relativamente diverso; nel tono e nelle caratterizzazioni, il film esprime un sentimento molto vicino ai primi due leggendari capitoli.
Fede Álvarez dimostra di aver capito la lezione più importante, dosando l’emozione nell’incastro di atmosfera e pura azione. La paura è attesa, un sordo senso di minaccia, un’ombra sul muro. Ma è anche sangue, violenza, disgustosa fisicità. Alien: Romulus è una fantasia horror nutrita di sangue e ambiguità. Se nella prima metà della storia è l’atmosfera a farla da padrone e la violenza è una parentesi improvvisa a squarciare la suspense, la seconda metà ribalta la prospettiva, permettendo all’azione di avere la meglio su qualsiasi pretesa di allusività e sottigliezza. Riflessione su limiti e estensione del concetto di umanità, ritratto esplosivo di una disperata volontà di sopravvivenza, Alien: Romulus recupera la macabra ironia della maternità intesa come fatto mostruoso, cardine tematico del primo film. E si interroga sul confine sottile tra apparenza e realtà – chiedendosi cosa sia umano o meno, il film corteggia superficialmente il pensiero dietro l’altro grande classico di Scott, Blade Runner (1982) – in modo un po’ meccanico e didascalico.
Non riserva al resto del cast – più giovane della media del franchise, ci si aspettava una scrittura più puntuale per loro – l’attenzione e l’interesse tributati a Cailee Spaeny. Il suo passaggio sulla storia è un mix di vulnerabilità e testa dura. Appartiene al suo dna d’attrice e lega d’istinto con la sensibilità del franchise. Al lato opposto c’è l’incertezza con cui il film gestisce la presenza di Isabela Merced, mentre va meglio con il sintetico (a tratti inquietante) Andy/ David Jonsson. Senza spingerne oltre l’immaginario in termini di estetica, di filosofia della paura e di costruzione dei personaggi, Alien: Romulus è un ingresso solido e incalzante per un franchise che, dopo un uno-due da urlo, aveva bisogno di tornare alle origini. All’atmosfera, alla violenza, alla cupezza delle origini. Riesce nell’intento, spiegandoci nel frattempo cosa va e cosa no, nel cinema commerciale contemporaneo.
Alien – Romulus: conclusione e valutazione
Alien: Romulus recupera sensazioni e atmosfera dei precedenti, senza la forza di una visione da accostare alla devozione cinefila. Il grande cinema nasce sempre al punto d’intersezione tra riscoperta e rielaborazione del passato. Il lavoro di Fede Álvarez riflette una tendenza chiave del cinema contemporaneo: l’età delle proprietà intellettuali e della serializzazione esasperata ha le idee chiare su cosa recuperare, non altrettanto su come procedere dopo. Alien: Romulus è un midquel solido, dal ritmo incalzante, il ritorno di uno spettacolo non superficiale e costruito sul mix di atmosfera e shock fisico. Ha grande rispetto per il passato che insegue ossessivamente nelle caratterizzazioni, nei toni, nella costruzione dell’immagine. Sa tracciare le sue origini ma non sa usare la benzina cinefila per definire, accanto alla tradizione, una visione diversa, originale, uno sguardo rivolto verso il futuro. Quando ci prova incespica un po’, come sul (non spoilerabile) finale e relativa sorpresa, non del tutto convincente. Alien: Romulus ha due compiti, gli riesce solo il primo. Ma gli riesce bene. La cosa più sensata è accontentarsi, perché non è poco.