American Factory: recensione del documentario Netflix

American Factory racconta le difficili giornate degli operai di una fabbrica che sta cercando di trovare la sua strada...

Siamo in Ohio, a Dayton, quando, nel 2014, un miliardario cinese, Cao Dewang, apre sulle ceneri di uno stabilimento General Motors – che ha chiuso i battenti nel 2008 – la fabbrica Fuyao di vetri per l’auto. Sono duemila gli operai americani, rimasti senza lavoro per colpa della recessione, che in questo modo trovano una nuova occupazione. L’incontro tra Cina e America non è però facile e in più lo spettro dell’automazione fa salire la tensione. Questo racconta il documentario American Factory – prodotto dalla Higher Ground Productions di Barack e Michelle Obama -, il film di Julia Reichert, Steven Bognar, in cui confluiscono le immagini e gli “studi” di The Last Truck: Closing of a GM Plant dove venivano raccontati i giorni tristi della chiusura.

Cinematographe.it, American FactoryAmerican Factory: il documentario racconta senza mezzi termini le difficili giornate degli operai di una fabbrica che sta cercando di trovare la sua strada

Il documentario, presentato al Sundance Film Festival e vincitore del Directing Award, arriva su Netflix – noto anche con il titolo Made in Usa. Una fabbrica in Ohio – il 21 agosto 2019, portando al pubblico della piattaforma un racconto purtroppo comune a molte fabbriche, piccole o grandi, americane e non, che hanno dovuto fare i conti con la crisi e i giorni tragici di presidenti e operai. Con cenni “storici”, dettagli, interviste, American Factory chiarifica fin da subito la sua linea narrativa – tra due mondi, due culture, due mentalità – ma dimostra anche, nello stesso tempo, la sua natura stratificata mentre la fabbrica cresce

I registi seguono americani e cinesi attraverso un lungo periodo di adattamento; le differenze tra le due compagini sono molte – la lealtà nei confronti del datore di lavoro, la sicurezza sul lavoro e la politica degli straordinari -, emergono e, a poco a poco, esplodono violente e fragorose.

L’unione tra cinesi e americani all’inizio sembra addirittura comica; i primi “novizi” sul suolo americano vengono istruiti per rapportarsi all'”omologo” americano dipinto come fin troppo informale. Le tensioni però poi aumentano e dall’entusiasmo speranzoso e vitale vengono a galla i drammatici problemi reali. I bassi standard di sicurezza, i salari bassi, elementi che innescano inevitabilmente critiche; dall’altra parte, la produttività ai livelli minimi e le discussioni sindacali danno il via a controlli molto approfonditi della direzione cinese. Nel frattempo si profila qualcosa di inquietante: lo spettro della perdita di lavoro dovuta all’automazione, qualcosa che risulta essere parte integrante e inevitabilmente della società.

I registi Julia Reichert e Steven Bognar mostrano con occhio asciutto ogni momento chiave, in un gioco senza esclusione di colpi interculturale, economico, “storico”. La storia è complessa, pesante, sfaccettata, puntuale, attraversa i continenti – infatti si viaggia tra l’America e la Cina – e si concentra soprattutto nell’anno 2015, tra l’ottimismo di chi ricomincia – a lavorare, a imparare e anche a sperare – e i dissidi interni di chi lavora per risollevare la situazione.

cinematographe.it, American FactoryAmerican Factory: un documentario che racconta l’America e la Cina

“The most important thing is not how much money we earn”

Così parla il miliardario cinese Cao Dewang – paradossale proprio perché a dirlo è appunto un miliardario -, proseguendo affermando che il punto fondamentale in questa “collaborazione” è il pensiero degli americani. Dewang, nonostante le evidenti contraddizioni e “stranezze”, porta la saggezza e l’abnegazione proprie della sua cultura e tradizione, tra chi ha scommesso tutto in qualcosa di nuovo e se vogliamo “ibrido”; e a fare da collante a tutto questo c’è lo sguardo dei filmaker che si concentra sui volti, sui corpi di chi si sbatte, giorno dopo giorno, nella fabbrica. 

Il lavoratore cinese insegna a quello americano nuovi metodi, nuove tecniche, ciò che lui fa da molto e dall’altra parte il secondo accoglie nelle proprie case, cullando con nuove tradizioni il suo “corrispettivo” cinese. Compagni, amici, fratelli ma poi le incrinature rompono quei “vetri” che l’azienda costruisce.

American Factory non cronachizza solo i fatti, parlando di danaro, di movimenti, di numeri e di rotture – la “materia” c’è, il vetro, i ruoli, i compiti anche – ma mostra anche il futuro americano e un certo dominio economico cinese che non si può negare. Il film affronta le sfide della globalizzazione non tralasciando nulla, ponendo al centro luci e ombre, e fa un passo indietro perché vuole ascoltare la voce di chi ha vissuto quei momenti, e quindi guarda le situazioni mentre accadono.

cinematorgaphe.it, American FactoryAmerican Factory: un’opera che è un grido di solidarietà per il lavoratore

American Factory si dimostra essere una sorta di grido di solidarietà dei lavoratori di tutto il mondo. Solidarietà appunto, perché è chiaro che i due registi conoscono quelle storie, lì hanno vissuto per molto tempo, fianco a fianco di tutti quegli uomini e quelle donne che hanno nomi e cognomi e ferite fisiche e emotive difficili da cancellare. American Factory parla della difficoltà di spiccare il volo, delle salite impervie di chi sa che sta percorrendo la strada giusta.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3.5

3.5

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