Venezia 76 – American Skin: recensione
Recensione di American Skin, film con cui Nate Parker tenta una denuncia, ma finisce per realizzare un comizio superficiale, più sensazionalistico che emotivo.
Durante la 76esima mostra del cinema di Venezia viene presentato American Skin, film diretto da Nate Parker.
Si parla spesso di film importanti. Di film necessari, film che parlano all’oggi, alla società, al quotidiano. Film che combattono le ingiustizie, che portano la verità in superficie, che mettono in pace le coscienze di molti e scuotono quelle rimaste più assonnate e intorpidite. C’è una cosa che accomuna questa categoria di film fondamentali, che rendono le pellicole non più semplici narrazioni, ma bandiere da portare in alto e far sventolare di fronte alle impurità. Una caratteristica che, prima di ogni altra cosa, di qualsiasi tema politico, etico, sociale, contribuisce a far elevare l’opera al di sopra del proprio semplice statuto cinematografico. E quel particolare, quel segno distinto che forma questo genere di film, è allo stesso tempo il più semplice che si possa pensare: essere, prima di tutto, cinema.
Buon cinema. Cinema ragionato, che conosce le regole della scrittura su carta, la scrittura per immagini, che non limita se stesso a trasportare un tema dalla mente allo schermo, ma lo plasma fino a che quel pensiero non diventa artistico, entrando ufficialmente a far parte dell’universo filmico. È per questo che, molte volte, quando un’opera ha un messaggio duro, violento, che vuol farsi ascoltare, non è detto che ci si ritrovi davanti anche a qualcosa di valore, ma piuttosto ci si imbatte nell’irruenza di un tema ben poco filtrato. È quello che accade a American Skin, a un film che qualcosa aveva da dire, ma che nella foga panegirica di giustizia si gonfia fino a scoppiare, rendendo obsoleto il suo solo argomentare, privo di una riflessione che si smuova più di quanto voglia far credere.
American Skin: quando la retorica si maschera da giustizia sociale
Dietro la direzione di questo comizio popolare c’è il regista di The Birth of a Nation – Il risveglio di un popolo, il Nate Parker contro cui il #MeToo si è votato, ma che ha conquistato comunque un posto nella sezione Sconfini alla 76esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, portando con sé una denuncia rivolta a ben altri tipi di vessazioni. L’American Skin di Parker è la stessa pelle che copre bianchi, neri, latini, la medesima eppure ancora così diversa quando si tratta di onestà, di rispetto reciproco, in un Paese in cui è il colore a far partire il grilletto e in cui è sempre il colore a tirarti fuori dai guai.
Nella ricerca di giustizia da parte di un padre verso il figlio ucciso da un poliziotto, i discorsi di American Skin si farciscono di una retorica mascherata dietro al confronto tra diverse realtà. L’idea certamente intelligente di allargare la prospettiva che solitamente si offre ai personaggi, non stigmatizzando il bene con il male, l’amore con l’odio, si indebolisce nell’ascoltare le parole tanto prevedibili e poco interiorizzate degli interpreti. Il desiderio viscerale di Nate Parker di portare i vari punti di vista e di ribaltare continuamente le prospettive delle persone finisce per diventare un lavoro smodatamente farcito dove non si arriva mai alla profondità scombussolante delle dinamiche umane, ma raschia la superficie per rimanere lì, perennemente a graffiare, senza toccare veramente lo spettatore.
American Skin: la contrapposizione tra tecnica innovativa e narrazione approssimativa
Contraddizioni che lo stesso formalismo del film sottolinea, nell’interessante scelta di utilizzare i differenti apparecchi di registrazione contemporanei e integrarli in modo sia funzionale che tematico al proprio racconto. Dalle riprese cellulari alla facilità di poter portare la verità attraverso il proprio stesso smartphone, American Skin si avvale dei mezzi di comunicazione e ne comprende il peso, per reinvestirlo nel linguaggio con cui portare a galla la storia di un padre e del proprio figlio, ucciso ben due volte dalle autorità. La modernità meditata sulla fisionomia tecnica si contrappone con il qualunquismo camuffato da inchiesta sociale, trovando uno scarto significativo tra cosa il film va proponendo con i propri ideali, confusi e approssimativi, e il modo innovativo con cui li riprende.
Più slogan che riflessione, più declamazione oratoria che attenta analisi a ciò che ci rende distanti e vicini come esseri umani, il film di Nate Parker è più sensazionalismo tronfio che una vera scarica di dolore fino in fondo alle ossa, dimentico della propria natura cinematografica e più adatto a un pasticciato ritrovo in adunanza.