Angela: recensione del film di Roberta Torre
Il terzo lungometraggio di Roberta Torre, un melodramma impressionista, viene riproposto nella programmazione del festival Sguardi Altrove 2023 di Milano.
Tra i film proiettati fuori concorso al Sguardi Altrove Film Festival 2023 c’è Angela di Roberta Torre, uscito per la prima volta in sala nel 2002.
Il terzo lungometraggio della regista milanese parla ancora una volta di mafia. Ma abbandona il tono grottesco e il genere musical di Tano da morire (1997) e Sud Side Stori (2000), per offrire al pubblico un melodramma di carattere impressionista. La Torre, infatti, trasforma in film la storia della moglie del boss Molina.
Angela: un melodramma impressionista
Angela (Donatella Finocchiaro), nella finzione, è moglie di un piccolo boss di Palermo, Saro (Mario Pupella), il quale usa la facciata legale di un negozio di scarpe per gestire una parte del traffico di droga cittadino. La donna aiuta il marito, facendo da insospettabile corriere per le vie di Palermo. Quando si unisce all’organizzazione Masino (Andrea Di Stefano), testa calda tornata in Sicilia dopo aver avuto “problemi sentimentali” al nord, a causa dell’avvenente moglie di un boss, gli equilibri familiari di Angela e Saro si sfaldano. Inizia così una storia d’amore fra la protagonista e Masino, che la polizia non tarderà a usare per contrastare le attività illecite di Saro.
Con questo film, la Torre si inserisce in pieno nell’estetica dominante del cinema italiano della fine degli anni novanta e dell’inizio del ventunesimo secolo. Quella che determinò il predominio di un cinema realistico, fatto con pochi mezzi, interessato a mettere al centro delle proprie narrazioni l’amore, inteso come unica categoria di comprensione della realtà (Brunetta, 2007). La fotografia di Ciprì appare minimalista, improntata a un uso naturalistico di luci e colori, che però si accendono e donano sfumature emotive all’immagine, nei momenti salienti della storia, seguendo la lezione del melodramma statunitense. Addirittura vi è un richiamo alle modalità di messa in scena di Douglas Sirk, nell’uso della passionale luce rossa durante la scena del primo bacio fra Angela e Masino e nel continuo uso di specchi, entro cui la Torre incornicia i suoi protagonisti. Come nel melodramma sirkiano, siamo dunque di fronte al racconto di una realtà costituita da riflessi, dove lo sguardo può cogliere solo la superficie di eventi sotto cui covano passioni e dolori, pronti a esplodere in tragedia.
Angela: lo sguardo sfocato di Roberta Torre
L’impossibilità dello sguardo di mettere a fuoco la realtà è inoltre suggerita anche dall’uso continuo della macchina a spalla, che inserisce le peregrinazioni di Angela per il quartiere di Ballarò, in un regime scopico di movimento continuo. La visione della macchina da presa non riesce a fissarsi su nessun dettaglio troppo a lungo, è spesso costretta a inseguire la protagonista, in costante fuga oltre il quadro. Delinea, così, traiettorie sfocate, trasformando l’immagine filmica in una rappresentazione plastica dell’impossibilità di vedere – questo tema è anche inscenato direttamente nella diegesi, attraverso i problemi agli occhi di Saro. Infine la scelta di ambientare Angela in un passato prossimo – gli anni ottanta – e di inserirla in una narrazione in cui dialoghi e immagini a volte si sganciano – vi è largo uso del voice over – contribuisce a dare una dimensione simbolica, quasi mitica, al film. Siamo in un tempo passato, che però, proprio come quello mitico, risulta sempre attuale, grazie alla rievocazione orale. Tale tempo è in definitiva l’origine della realtà caotica odierna, in cui sembra esser rimasto solo l’amore a dare un senso al tutto.
Eppure con Angela, come già accennato, Roberta Torre vuole raccontare l’inadeguatezza delle categorie percettive umane (la visione, il suono) nel cogliere proprio quella realtà che ha perso ogni forma compiuta. Il reale si trasforma in un divenire centripeto, che porta i corpi coinvolti a una sorta di autodistruzione – si consideri, a riguardo, il cambiamento estetico di Angela che inizia nel momento dell’arresto. Proprio l’amore così perde il suo carattere totalizzante di ultimo vettore di senso. Esso non risulta altro che l’illusione/immagine alla specchio di un qualche ordine morale in una realtà fatta di macerie emotive, sociali e ideologiche. Ovvero una realtà da cui ogni dimensione collettiva, ogni nozione etica, è stata scacciata e in cui è avvenuta una regressione a uno stato neo-tribale in cui mafia e Stato/polizia sembrano rappresentare quasi i due poli opposti, ma convergenti, di una sorta di forza opprimente e repressiva, che ha l’unico scopo di schiacciare quell’ultimo barlume di umanità presente negli individui.