Venezia 79 – Anhell69: recensione del film di Theo Montoya
Il colombiano Theo Montoya presenta a Venezia, all’interno della Settimana Internazionale della Critica, un documentario lirico sulla nostalgia del padre, l’amore per i fantasmi e la morte in una Medellín contraddittoria, tra icone di Gesù Cristo e poster di Britney Spears.
Theo Montoya, regista e voce narrante di Anhell69, vuole realizzare un film di fantascienza ispirato ai B-movie che ne hanno segnato la formazione e plasmato il gusto estetico e narrativo: una distopia in cui, in una patria di figli cresciuti da madri, l’unico padre – un padre comune, un padre primordiale – è Pablo Escobar e le altre due autorità della triade al governo, lo Stato e la Chiesa, sono impegnate a dare la caccia agli spettrofili, giovani che provano attrazione sessuale per i fantasmi e s’accoppiano voluttuosamente agli specchi. Metafora, questa loro spettrofilia virulenta, dell’incapacità di stabilire una relazione con un altro che non sia spettrale o riflesso di sé. Incapacità che non trova, però, in chi dovrebbe indicare la via – nella legge: ufficiale, criminale, dottrinaria – nessun contenimento che non passi anche attraverso la persecuzione, la brutalità, il terrorismo.
Anhell69: un giovane regista di Medellín sogna di realizzare una distopia in cui il padre di una nidiata di orfani spettrofili è Pablo Escobar
Per trovare gli attori adatti a formare il cast, Montoya s’addentra nella comunità queer di Medellín, animata da giovani che, esattamente come lui, sono cresciuti tra madonne sacre e laiche e hanno gesù cristi crocifissi ai capezzoli e poster di Britney Spears appesi in camere sovraffollate di ninnoli. Sono tutti rigorosamente venuti su senza padre.
Questa assenza, nonostante le buone intenzioni, madri sacrificali e consacrate alla vedovanza e all’accudimento non sono riuscite a colmarla, nella condanna dei loro figli alla ricerca di una trascendenza impossibile, ingabbiati quali sono in un presente con le pastoie, che non può tendere ad alcun futuro. La violenza, nel Paese, è infatti a tal punto sedimentata, e con la violenza una disperazione che non trova compensazioni nelle tossicodipendenze e nelle trasgressioni, da rendere la morte una compagna familiare, più desiderabile che temuta.
Anche il passato, del resto, è lacunoso, e da lì, da questa insipienza, la ripetizione micidiale del trauma: uno dei ragazzi confessa, durante il provino, di ignorare, a causa delle reticenze materne, in che circostanze sia morto il padre. Da quel che ha dedotto, è rimasto ucciso in una roulette russa, dunque di propria mano.
Anhell69: un film in cui la morte è l’unica presenza non fantasmatica, che, tuttavia, parla di vita alla vita
Il regista resta colpito da Camilo (“l’omosessualità non è tra i miei complessi, sono più insicuro per la mia acne che per la mia omosessualità“), lo vorrebbe protagonista del suo film, ma non fa in tempo a comunicargli di essersi ‘innamorato’ e di volerlo sul set che lui, l’eletto, muore d’overdose. Il primo di una lunga serie di amici.
Ritratto di una generazione la cui sensibilità è acuita dal fallimento dei modelli genitoriali, dalla latitanza del paterno e dall’acquiescenza dello Stato nei confronti dei narcos, Anhell69 è un film sul desiderio di fare un film che è anche il desiderio di uscire fuori serie, di sottrarsi a un destino, ma su questo desiderio irrompe la morte, e allora diviene più urgente raccontare di un’altra spettrofilia, di un’altra passione per gli spettri, quella di coetanei vibranti, ma già arresi alla fine, a un amore – alla vita prima che all’altro – che potrà darsi solo da e tra fantasmi.
Di grande potenza emotiva, eppure calibrato nel rapporto tra parola e immagine, appena illeziosito da un sonoro calligrafico e della modulazione talvolta artificiosa del voice-over, il documentario vorrebbe scrivere un film su un’altra realtà che simbolizzi la società conosciuta, ma finisce per scrivere, con maggiore grazia e pari urgenza, l’effimero di vite ad alta intensità, solcate dal dubbio che il presente sia prodotto di un trauma passato, il quale resta, però, indicibile e per questo ritorna, in un eterno avvitamento in cui l’unico al di là della giornata sembra essere un ventaglio di morti interscambiabili da poter sfogliare, sovrapporre, alternare. Destinazione finale, e unica, il cimitero. Stazione per salutare chi si è incontrato e brevemente amato o approdo di un riposo non reversibile.
E nonostante la morte sia al suo interno l’unica presenza non fantasmatica, Anhell69 parla di vita alla vita e attraversa, pur nel disincanto, quella trascendenza creduta interdetta, consentendo al suo autore di transitare, di allungare il primo passo verso un altrove che interrompa la ripetizione mortifera che ne ha, uno dopo l’altro, divorato i compagni di strada.