Animali Selvatici: recensione del film di Cristian Mungiu
Animali Selvatici, in sala il 6 luglio 2023 a un anno dal passaggio al Festival di Cannes, è uno sguardo impietoso e formalmente audace rivolto verso il nostro presente. Regia di Cristian Mungiu.
Mancava da un po’, Cristian Mungiu, pilastro del cinema d’arte europeo e principale esponente del cinema rumeno contemporaneo. L’ultima volta nel 2016 (il film si chiamava Un padre, una figlia), ora è il turno di Animali Selvatici. Dal 6 luglio 2023 nei cinema italiani, a più di un anno dal passaggio al Festival di Cannes 2022, distribuzione Bim Film. Scritto e diretto da Cristian Mungiu, nel cast Marin Grigore, Judith State, Macrina Bârlădeanu. Il titolo originale sarebbe R.M.N., acronimo per risonanza magnetica e, l’hanno fatto notare in tanti, lo scheletro di Romania. Gli accertamenti clinici, l’autore rumeno, li prescrive a un personaggio, al suo paese, al nostro presente globalizzato. Attraversato da tensioni (intime, etniche, culturali, economiche) attorcigliate le une sulle altre, sul punto di esplodere e chissà che non lo facciano sul serio.
Animali Selvatici: ritorno a casa, una polveriera di rancori e tensioni sopite per troppo tempo
Animali Selvatici, in superficie, è la storia di Mathias e Csilla. In profondità, una cronaca del tempo presente e il riflesso di pulsioni trasversali a ogni epoca. Ma bisogna andare con ordine. Matthias (Marin Grigore) lascia il suo lavoro in Germania per tornare in Romania. In Transilvania; il pubblico ne conosce la cornice di brividi e suggestioni vampiresche, la vede come la casa di un macabro pittoresco e nulla più mentre, spiega Cristian Mungiu, per chi ha dimestichezza con la storia e le cicatrici della regione è soprattutto una terra contesa. Da rumeni, ungheresi, persino tedeschi. Un posto dove si parla una babele di lingue, si scontrano una miriade di aspirazioni e si accumulano tensioni e risentimenti difficili da disinnescare. Matthias ha lasciato la Germania dopo aver aggredito un collega che l’ha apostrofato in modo razzista. Torna a casa per rivedere Csilla (Judith State).
Csilla è, era, la sua amante. Matthias è sposato con Ana (Macrina Bârlădeanu) e ha un figlio, Rudi (Mark Blenyesi). Il padre di Matthias si chiama Otto (Andrei Finți) e ha problemi di salute, è lui che si sottopone alla risonanza magnetica così centrale, da un punto di vista simbolico, nell’architettura del racconto. Matthias non ha nessuna intenzione di riannodare le fila del rapporto con Ana, gli interessa crescere Rudi nel modo più giusto. Il bambino non vuole parlare, ha visto qualcosa nei boschi che l’ha tremendamente turbato. La madre, pensa Matthias, non lo sta tirando su bene e c’è bisogno di una forte presenza paterna. Quando non pensa al figlio, il protagonista pensa a Csilla.
Csilla ha fatto fortuna, si può dire, gestendo il panificio locale. Per sbloccare certi fondi UE necessari alla sopravvivenza dell’impresa, ha bisogno di assumere un paio di lavoratori. Ne arrivano tre dallo Sri Lanka e basta questo a scatenare un vergognoso putiferio razzista. I locali protestano che gli stranieri vengono a rubare il lavoro alla gente del posto, anche se la gente del posto, quei lavori lì, non li vuole più fare. La piccola comunità, che si fa vanto d’aver scacciato gli zingari, lamenta dei nuovi venuti la scarsa igiene, il timore dei virus, delle epidemie. Il villaggio di Animali Selvatici sta proprio al confine tra la civiltà e le terre non addomesticate, posizionamento dai forti risvolti simbolici. Siamo nell’inverno 2019/2020, a un tiro di schioppo dall’inizio della pandemia. In più, c’è la benzina sul fuoco delle rivendicazioni nazionaliste, i casi privati, le frustrazioni intime. Insomma, una gran confusione. Per Cristian Mungiu è proprio questo il punto.
Tante ambizioni e la volontà di raccontare il nostro tempo, con qualche imperfezione
Matthias lascia la Germania vittima di squallidi “apprezzamenti” razzisti, ma quando torna a casa ed è la sua, di gente, a maltrattare lavoratori migranti, non muove un dito in loro favore. Csilla, che è una persona per bene, si batte per difendere l’incolumità dei lavoratori singalesi, anche perché c’è il discorso dei fondi europei, non è solo questione di dignità. Il piccolo villaggio, che lamenta il destino della Romania bistrattata da un Occidente che costruisce la sua prosperità usando l’est europeo come argine per l’aggressore esterno (ce n’è per tutti, da Attila all’Unione Sovietica), non si fa problemi a trattare i suoi emarginati alla stessa maniera. Ana ha ragione, a preoccuparsi del modo con cui il marito vuole crescere Rudi; forse esagera anche lei, in senso inverso. Nel villaggio i rumeni parlano rumeno, gli ungheresi ungherese e i (pochi) tedeschi tedesco, trovando il modo di capirsi lo stesso. A questo serve l’inglese, la lingua franca di un presente globalizzato, franato e caotico.
Cristian Mungiu e la fotografia delle conflittualità latenti nel tempo presente: Animali Selvatici lo racconta in lungo e in largo, questo nostro mondo che non è mai abbastanza per nessuno. Troppe aspirazioni, poche risorse. La globalizzazione, nei suoi accenti problematici – il film ne fa una critica impietosa anche se un po’ imprecisa – illumina questa strana “guerra dei recinti”. Se lo spazio è poco e i bisogni sono tanti, capita di rinchiudersi nella trincea delle proprie tradizioni (lingua, cultura, etnia), per muovere guerra alle tradizioni altrui. Tutti i personaggi del film sono schiacciati, diseredati e puniti. A loro volta, schiacciano, puniscono e diseredano. Un cortocircuito importante. L’uomo che non riesce ad armonizzare la complessità, la diversità, l’altro, si fa aggressore, scordando a sua volta di essere un aggredito.
Il problema, al netto della regia audace di Cristian Mungiu, è che il film finisce per soccombere alla stessa confusione che dovrebbe rappresentare con distacco. L’autore rumeno, dal trionfo internazionale di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni in poi, ha sempre saputo legare analisi intima e l’affresco storico e sociale. Stavolta il trucco funziona meno: Animali Selvatici, molto semplicemente, accumula troppo e non restituisce con criterio. Perché c’è il film politico e i tormenti esistenziali/affettivi dei protagonisti, il quadro d’ambiente e la riflessione sui limiti di un certo concetto di mascolinità. Il focus si sposta in continuazione, dall’amore contrastato di Matthias e Csilla al documento sociale e ritorno, non così fluidamente tra l’altro, per raccontarci di un film che ne contiene al suo interno tanti. E fatica a trovare il modo di farli comunicare. Indirettamente, questa imperfezione tradisce parte delle tensioni e dei problemi della contemporaneità. Lo fa in un modo non del tutto auspicabile, anche se le ambizioni meritano rispetto e la qualità formale è pregevole.
Animali Selvatici: conclusione e valutazione
Il racconto di un ambiente fondato su un pericoloso equilibrio di tensioni, pronto a spezzarsi in qualunque momento. L’inverno come stato mentale, la sobria eleganza dell’immagine. La forza evocativa del piano sequenza – uno in particolare, proprio nel cuore del film, di un’intensità gloriosa – per raccogliere le tante anime del film. L’alchimia tra la virilità pericolosa di Marin Grigore e la delicatezza di Judith State, l’enigmatico finale. Il coraggio di Cristian Mungiu. Ce ne sono tante, di cose belle, in Animali Selvatici. Anche l’impressione, più di un’impressione per la verità, che stavolta l’incastro delle ambizioni (tematiche, narrative) non abbia pagato fino in fondo. Restituendo un film vitale ma imperfetto. In un modo un po’ frustrante, tenuto conto del calibro autoriale.