Argo: recensione del terzo film da regista di Ben Affleck
Nel 1979 il popolo iraniano destituì lo Shah Reza Pahlavi, insediato nel 1953 dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, e richiamò alla guida del Paese l’esiliato Ayatollah Khomeini. Quando Pahlavi, gravemente malato, trovò asilo negli Stati Uniti di Jimmy Carter la popolazione di Teheran manifestò davanti all’ambasciata americana, chiedendo l’estradizione dello Shah. Alcuni studenti e attivisti islamici riuscirono a penetrare nell’edificio e presero in ostaggio 52 diplomatici e funzionari, tenendoli prigionieri per ben 444 giorni. È proprio da qui che prende le mosse Argo, terzo film da regista per Ben Affleck che, dopo Gone Baby Gone e The Town, costruisce con cura un thriller incentrato sull’operazione “Canadian Caper”. Dopo l’assalto, mentre gli occhi del mondo erano puntati sull’ambasciata americana, la CIA e il governo canadese avevano dovuto architettare un piano bizzarro per riportare in patria sei diplomatici americani (nel film Tate Donovan, Clea Duvall, Christopher Denham, Scoot McNairy, Kerry Bishé e Rory Cochrane) che erano riusciti a fuggire e a rifugiarsi a casa dell’ambasciatore canadese. Affleck interpreta Tony Mendez, un esperto di esfiltrazioni chiamato, insieme al suo supervisore Jack O’Donnell (Bryan Cranston), a gestire la delicatissima operazione.
Siamo sul finire degli anni Settanta, nel pieno dell’esplosione della fantascienza al cinema, ad appena due anni dall’uscita del primo Guerre stellari: non è certo impossibile immaginare una troupe di sei persone – sette con Mendez – di ritorno a Hollywood dopo un sopralluogo in Iran per cercare location adeguate a un film Sci-Fi. Affinché la bugia sia credibile fino in fondo, il progetto del finto film in questione – intitolato appunto Argo – viene realmente presentato alla stampa americana (“Se vuoi vendere una bugia…lascia che la stampa la venda per te!”), con tanto di make up artists e produttori (John Goodman e Alan Arkin).
Argo – “L’esfiltrazione di ostaggi è come un aborto: non lo vorresti mai fare, ma, se decidi di farlo, non puoi fartelo da solo!” (Jack O’Donnell)
Ben Affleck mette in piedi una pellicola misurata e decisa come il personaggio che egli stesso interpreta: Argo è un film compatto, che dispiega la vicenda spostandosi da un’ambientazione all’altra con straordinaria linearità, ma senza scadere mai nel didascalico. Analogamente, il regista si dimostra capace di tenere solidamente intrecciati tre registri differenti, spostandosi dall’uno all’altro con agilità: dal film storico al thriller, dal thriller alla commedia. Ridiamo con John Goodman e Alan Arkin che, organizzando il lancio del finto film, restituiscono un ritratto al vetriolo dell’industria hollywoodiana; ci arrabbiamo con Bryan Cranston durante la complessa organizzazione dell’operazione; siamo impauriti con i sei ostaggi a Teheran. Forse, in alcuni passaggi, Affleck spinge un po’ troppo sul pedale dell’eroismo americano. Quel che è certo, però, è che Argo tiene lo spettatore incollato allo schermo dall’inizio alla fine, senza deluderlo. Il cinema come evasione? In questo caso sarebbe opportuno parlare di cinema come via di fuga, anche letteralmente.
Il film è stato premiato agli Oscar 2013 vincendo nelle categorie miglior film, miglior sceneggiatura non originale e miglior montaggio.