Venezia 75 – As I Lay Dying (Hamchenan Ke Mimordam): recensione
Un film con non pochi difetti, basato sull'omonimo romanzo di William Faulkner.
Per la rassegna Orizzonti, tra i film più atipici e particolari, c’è sicuramente As I Lay Dying (Hamchenan Ke Mimordam) di Mostafa Sayari, con Nader Fallah, Elham Korda, Majid Aghakarimi, Vahid Rad e Mohammad Rabbani.
Il film di Sayari si propone come dramma familiare-esistenziale, claustrofobico, angosciante, dove regnano sovrani il mistero, l’incomunicabilità, la totale mancanza di certezze e verità per lo spettatore, una tensione tanto palpabile quanto indecifrabile tra protagonisti che lo spettatore conosce solo poco a poco, in modo frammentario e spezzato.
Alla base dell’iter narrativo il romanzo omonimo “As I lay Dying” di William Faulkner, dove viene narrato il funerale di un vecchio padre morto da poco, in circostanze misteriose, e del lungo estenuante viaggio dei tre figli e della figlia per esaudire il suo ultimo desiderio: venire seppellito in un piccolo villaggio sconosciuto.
Tuttavia cammin facendo, si scopre che il rapporto tra i fratelli, l’equilibrio familiare tutto, erano compromessi da vecchi misteri, lutti, violenze, invidie ed incomprensioni, e che “l’amato” padre non era poi così amato.
Ma davvero è morto per cause naturali? Davvero quell’odissea per seppellirlo prima che imputridisca ha un senso?
As I lay Dying – un dramma familiare on the road
Diretto con grande cura da Sayari, As I Lay Dying è un dramma familiare on the road, che al suo interno ha diversi omaggi al cinema esistenziale degli anni 70, alla sperimentazione, ma più di tutto sembra in diversi momenti una sorta di dramma semi-shakespeariano desertico, dove non è un caso che l’ambiente circostante, gli altri, siano sfondo quasi impercettibile, ciò che conta è l’interno.
L’interno delle stanze, delle macchine, del lenzuolo dove giace il corpo, della famiglia disastrata dove rancore e dolore sono pronti a scappar fuori e manifestarsi, l’interno delle catapecchie dove cercan rifugio, delle vite dei protagonisti.
La fotografia di Hamed Hosseini Sangari e il montaggio di Hayedeh Safiyari sono entrambe votate a questa missione, a questo isolare ogni singola scena come dramma, momento narrativo indipendente, volendo anche scollegato dagli altri.
La frammentazione narrativa e visiva si accompagna ad un registro recitativo scarno, essenziale, monocorde, dove ogni personaggio è uguale a sé stesso, non cambia mai, quasi perso anch’egli nell’immenso deserto che lo contiene.
As I Lay Dying distrugge quella famiglia che è pietra angolare della civiltà mediorientale dai tempi di Ciro il Grande, le toglie dignità, bellezza, toglie l’universalità positiva che essa contiene, la riempie di mistero, abbatte le fondamenta su cui l’uomo pensa di poter costruire il proprio futuro: la certezza di un nido, di un rifugio.
Ma verso dove ci porta? Davvero tale cammino è giustificato? E’ coerente o ha un suo equilibrio? No.
La sceneggiatura a sei mani di Behnam Abedi, Mostafa Sayari e Hamed Hosseini Sangari spreca molto, rinuncia a spiccare il volo, confonde mancanza di contenuti con mistero, guida infine lo spettatore in un viaggio tecnicamente e stilisticamente impeccabile, ma anche inconcludente, senza significato se non la mancanza di significato travestita da dramma esistenziale.
As I Lay Dying non riesce a coinvolgere lo spettatore
A questo errore, ne aggiunge uno anche più grave: la mancanza di fantasia, la prevedibilità, la mancanza di sviluppo di personaggi che si, certo, possono e devono se necessario seguire il proprio percorso, ma questa immobilità, questa mancanza di evoluzione, alla lunga annoia, rende il tutto prevedibile e stonato.
La sua teatralità poi, stona con l’energia della regia e della fotografia, quasi i tre elementi si scollegassero, si annullassero a vicenda.
As I Lay Dying in un’ultima analisi, è un film che si perde nel deserto della sua mancanza di ambizione narrativa, nella sua supponenza espressiva, nella sua autoreferenzialità manca di ogni poesia, di ogni capacità di condivisione con lo spettatore di una verità, anche solo parziale, anche solo finta.
Rimane un’odissea angosciante di personaggi freddi, chiusi in sé stessi, che non dona che un’ondata emotiva indecifrabile allo spettatore ma non lo coinvolge, non lo guida.