Cannes 2018 – I figli del fiume giallo: recensione del film di Jia Zhang-Ke
I figli del fiume giallo suggerisce l'idea dell'araba fenice, in grado di risorgere dalle sue stesse ceneri, con il bianco (white) a voler suggerire un nuovo inizio, una pagina candida. Ma tale ottimismo è assente dalla pellicola di Jia Zhang-Ke, che sembra soffermarsi più sull'irreversibilità delle trasformazioni.
I figli del fiume giallo (Ash is purest white, Les Eternals, Jiang Hu Er Nv), per la regia di Jia Zhang-Ke (Still Life, Al di là delle montagne) parte dal pretesto del sacrificio d’amore compiuto da Qiao (la divina Zhao Tao), una ex ballerina, nei confronti del suo compagno Bin (Liao Fao), un gangster che esercita un grande potere locale nella decadente Datong. Qiao segue silenziosamente le azioni illecite del suo amato, mostrando un temperamento deciso ma disposto a stare nell’ombra, lasciando spadroneggiare l’ego di Bin, un uomo per il quale valore corrisponde a potere. Ma Datong è una città che sta cambiando, come del resto l’intera Cina, una trasformazione inesorabile destinata a modificare gli equilibri sociali ed economici, fino a quando un agguato decreta la fine del dominio di Bin, al quale – tuttavia – Qiao riesce a salvare prontamente la vita, pagando il suo gesto (un colpo di pistola esploso in aria) con 5 anni di prigionia.
Quando la pena si conclude, Qiao non è più la stessa, visibilmente provata e invecchiata. E la donna decide di trascinarsi nella realtà trasformata che la circonda con l’unico obiettivo di capire, o forse solo razionalizzare, perché Bin abbia deciso di abbandonarla, rifacendosi una vita.
I figli del fiume giallo: un affresco malinconico sull’inesorabilità del cambiamento
I figli del fiume giallo (il cui titolo cinese ha tutt’altro significato – Figli dei fiumi – e anche quello francese, Les Eternals) suggerisce l’idea dell’araba fenice, in grado di risorgere dalle sue stesse ceneri, con il bianco (white) a voler suggerire un nuovo inizio, una pagina candida. Ma tale ottimismo è assente dalla pellicola di Jia Zhang-Ke, che sembra soffermarsi più sull’irreversibilità delle trasformazioni, sia quelle socio-culturali di una Cina dilaniata nel giro di una manciata di anni dall’industrializzazione, sia quelle interpersonali, con questa storia d’amore che non può più essere perché troppe cose sono cambiate, compresi i suoi stessi protagonisti.
Ma Qiao non si dà per vinta, pretende delle risposte o almeno un ultimo confronto con l’uomo per il quale ha perso la libertà, ritrovandosi sola al cospetto di una realtà sempre più spersonalizzante, in cui ricostruire se stessa sulla base di menzogne ed espedienti non esattamente limpidi, ma necessari ad attribuirsi nuovamente un’identità.
Bin, dal canto suo, è un uomo che esisteva solo all’interno del suo sistema di potere, che non ha resistito all’onta di essere decaduto ma anche dell’essersi fatto salvare dalla sua compagna, pur sempre una rappresentante del sesso debole. Qiao, invece, di debole non ha proprio nulla e decide di continuare a dedicare la sua vita rimanendo fedele a se stessa e all’amore che – suo malgrado – ancora la lega a Bin, o a quello che era.
I figli del fiume giallo rende al massimo il suo opprimente messaggio anche grazie alla disponibilità di riprese che attraversano oltre 15 anni, mostrando esplicitamente gli effetti del tempo sui volti dei suoi protagonisti, offrendo così alla storia un’ulteriore spinta narrativa che – tuttavia – resta forse insufficiente per coprire senza fatica da parte dello spettatore un minutaggio di quasi 2 ore e mezza.
Un tempo diluito, ma in cui prende lentamente forma, fra splendide immagini e numerose scene simboliche che sottolineano la difficoltà di un ritrovato contatto umano, ma anche solo di affermarsi nuovamente in una realtà troppo trasformata per essere ancora riconoscibile, un’opera che diviene progressivamente viaggio esistenziale, in un Paese che si è perso – insieme ai suoi abitanti – sotto la spinta inesorabile di quello che chiamiamo progresso.