Aspettando il re: recensione del film con Tom Hanks
In crisi con la famiglia, con il lavoro e con se stesso, un uomo d'affari americano accetta un'importante nuova mansione: vendere un sistema di teleconferenza al re dell'Arabia Saudita. Ma del principe non c'è traccia alcuna...
È perlomeno curioso immaginare che un film con protagonista Tom Hanks possa passare in sordina, venendo pressoché ignorato dal pubblico in sala. È il caso di Aspettando il re, presentato al Tribeca Film Festival nel 2016 e poi distribuito con scarissimi risultati in America, nonostante svariati apparenti motivi di interesse: oltre alla star Hanks, una regia affidata a Tom Tykwer (Lola corre, 1998; Profumo – Storia di un assassino, 2008) e una sceneggiatura desunta dal romanzo di successo Ologramma per il re di Dave Eggers.
In Italia il film è diventato addirittura un’uscita “tecnica”, congelato per oltre un anno e gettato quasi senza battage pubblicitario al cinema a fine stagione (era il giugno del 2017) solo per fare da traino al successivo passaggio all’home video. Aspettando il re, tuttavia, non è assolutamente un disastro; semmai è un’opera che manca qua e là di coraggio e personalità: troppo leggero e superficiale per essere un dramma a tutto tondo, ma al contempo eccessivamente politico e riflessivo per potersi avvicinare alla commedia pura.
Aspettando il re: fra Oriente e Occidente, fra tradizione e modernità
Con incedere surreale e pop si raccontano le alterne fortune di Alan Clay, divorziato e sull’orlo della bancarotta. È un agente di commercio, a cui viene data la possibilità di un importante rilancio di carriera: la missione è vendere al re dell’Arabia Saudita un innovativo sistema di teleconferenze in 3D. La modernità in tutto il suo splendore, dunque, innestata in un ambiente e in un altro mondo che cerca la fusione fra valori della tradizione e sguardo sul futuro.
Ma il re – come suggerisce il titolo italiano – non arriva mai, e la trasferta per il salesman dal cuore d’oro diventa l’occasione per una importante riflessione sulla sua vita e sui suoi sepolti problemi. In Medio Oriente Alan si sente un corpo estraneo, e sul suo corpo compare… un corpo estraneo: una cisti dalle dimensioni anomale, sulla schiena, che lo spinge a recarsi in ospedale. Ed è forse proprio lì, in una situazione asettica di disagio e timore (per le proprie condizioni di salute), che la sua esistenza cambierà in modo radicale.
Aspettando il re: la metamorfosi del Sogno Americano
Non si può negare che le analogie ricamate dallo script – firmato dallo stesso Tykwer, con gran sfoggio di semplificazione nei confronti del romanzo di riferimento – non siano particolarmente telefonate e pigre: se l’escrescenza di Alan è metafora della diversità e della trasformazione che di lì a poco si troverà a esperire, la città in mezzo al deserto in cui si trova a operare diventerà inevitabilmente un’oasi paradisiaca e assieme purgatoriale: sarà compito del personaggio principale imparare a guardare alle cose con occhi nuovi.
Scherzoso e agrodolce, il cinema di Tykwer si avvicina spesso al kitsch – i colori saturi, il dubbio gusto di certe situazioni che dovrebbero risultare comiche – nutrendo comunque il desiderio di farsi portatore di grandi messaggi filosofici sul senso della vita. Un po’ come le sorelle Wachowski, con le quali guarda caso Tykwer ha collaborato per la regia di Cloud Atlas: solo che, mentre alle Wachowski spesso l’ardita mescolanza di alto e basso riesce alla perfezione (Matrix, 1999; la serie tv Sense8, 2015), di fronte ai lavori di Tykwer si ha sempre la sensazione che manchi qualcosa, un approfondimento realmente significativo o una chiusura del cerchio narrativo che in qualche modo renda il soggetto indimenticabile. Accade anche in Aspettando il re, un film gradevole e a suo modo curioso ma non del tutto completo.
Aspettando il re: una favola di evasione e riscatto
A venire meno, dopo aver gettato le basi per un ragionamento sulle ricadute della crisi economica (la recessione del 2008) e della globalizzazione (la Primavera Araba del 2010), è un affondo finale degno di nota. Anzi, in breve ci si rifugia nei porti sicuri dello stereotipo e del buonismo, che svelano forse il fine ultimo della pellicola: non tanto tratteggiare un racconto verosimile, quanto dar vita a una favola surreale e tragicomica in salsa esotica (accade più o meno lo stesso anche in Il pescatore di sogni, 2012, anch’esso tratto da un romanzo e anch’esso ambientato in un luogo eccentrico per lo sguardo occidentale, lo Yemen), in cui anche i più aperti contrasti si risolvono in modo idilliaco e trasognato. Non di per sé un male, anche se resta il dubbio sulle reali intenzioni dell’autore.
In Aspettando il re c’è la fuga e c’è la riscossa, e c’è un respiro surreale che soprattutto nella prima metà sfiora anche la spiritualità. Ma è indubbio che poi la vicenda si normalizzi, rientrando nei ranghi del cammino di maturazione personale di un uomo alla ricerca della serenità e di una rinnovata fiducia in se stesso. Dall’universale al particolare, viene rimesso al centro il valore umano dell’individuo a scapito del valore economico del collettivo, che spersonalizza e rende tutto indistinguibile. In questa morale – nascosta qua e là fra le pieghe di una messinscena estetizzante e di una scrittura a tratti incoerente e inclassificabile – Aspettando il re trova la sua ragion d’essere.