Venezia 77 – Assandira: recensione del film di Salvatore Mereu
Recensione di Assandira, il nuovo film di Salvatore Mereu che, cercando di aprirsi, resta più circoscritto attorno a se stesso.
Sono passati otto anni da quando Salvatore Mereu debuttava al cinema con il suo Bellas Mariposas. Un film piccolo, una commedia dai toni che richiamavano il tragico, ma che non sceglie mai di scadere nel vero dramma; una pellicola atipica che utilizza lo sguardo in macchina per un’interazione diretta tra la sua protagonista Caterina e il pubblico che, da subito, rimane lì ad ammirare, divertito dall’insolito piglio del film regionale, molto circoscritto per la realtà che vuole raccontare, ma proprio per questo pronto ad aprirsi allo spettatore che si ritroverà in una grottesca messinscena che sembra quasi uscita dalla penna di Stefano Benni.
A distanza di tempo e prendendo ispirazione dall’omonima opera del 2004 scritta da Giulio Angioni, Mereu si allontana con salto netto dal suo debutto per dirigere il dramma famigliare Assandira, non abbandonando nemmeno questa volta le radici di un cinema che si nutre fin in profondità del territorio, rendendolo esso stesso motivo di scontro, azione, interesse, nonché principio scatenante per le vicende dei suoi protagonisti.
Assandira – L’entroterra sardo di Salvatore Mereu
Se ne era infatti andato via il giovane Mario (Marco Zucca) dalla terra che, da sempre, il padre aveva coltivato. Gli animali, le tradizioni, erano state sostituite dalla vita cittadina, dall’atmosfera europeggiante così distante dalle realtà contadine della Sardegna rurale. Eppure Mario ha deciso di tornare e di mettere su insieme alla sua compagna un agriturismo dove offrire ai proprio ospiti la vera esperienza dei riti e dei culti locali. Idea per cui ha bisogno dell’aiuto del padre (Gavino Ledda), scontento della decisione del figlio di tradire il suo futuro, fin quando il casolare non sarà preso dalle fiamme.
È dalla fine che comincia Assandira e dal percorso a ritroso di un padre che dovrà spiegarsi e spiegare cosa ha portato alla morte di un figlio e al capolinea della sua attività sempre più prospera. Il fuoco è divampato sui campi dell’entroterra sardo e, subito dopo, un’acqua come manna dal cielo ha ridotto la cenere in ricordi di quello che è stato, per un passato talmente vicino che aveva appena finito di compiersi. Una narrazione, quella dello sceneggiatore e regista Salvatore Mereu che tenta il grande passo quando, nel suo piccolo, era riuscito con Bellas Mariposas a inquadrare una realtà ben più coinvolgente di quella che va descrivendo con l’opera Assandira, che nella percepibile ambizione portata alla stelle, scade nella bizzarria più disarmante.
La disarmante ambiguità di Salvatore Mereu
Stabilendo fin da subito un clima ostile che esclude dall’inizio lo spettatore dal circolo ristretto e famigliare che viene accolto nelle mura di Assandira, è la scrittura minimale dei personaggi e, ancora più, l’errata direzione degli attori che genera una soluzione respingente verso cui l’attenzione del pubblico ha davvero ben poco a cui aggrapparsi, vedendo un circolo chiuso rimanere ancora più accartocciato su se stesso, incapace di esprimersi se non malamente o attraverso un lessico inutilmente codificato. L’ambiguità che Mereu tenta di fornire e che Assandira non riesce a sua volta a gestire, sfugge totalmente al controllo del proprio autore che, con una storia che viene condizionata anche dall’interpretazione dei suoi attori, allontana il desiderio di far parte noi stessi degli ospiti di un luogo in cui assaporare ancora costumi e usi, e ancor più di domandarsi la causa per cui quel fuoco è arso.
E se con Bellas Mariposas il grottesco era guizzo stilistico che contribuiva all’esaltazione di un racconto sospeso nel tempo, nonostante un discorso quanto mai attinente come la sorellanza e la condivisione di sentimenti, spazi e prospettive femminili, in Assandira personaggi e storia finiscono per virare esattamente nella direzione opposta rispetto al drammatico perseguito, scaturendo più lo sconcerto che quel senso di intrigo che trova, in chiusura, la sua più imprevedibile scelta, assurda non perché non attinente, ma poiché scollegata dal resto della pellicola. Esagerando e non misurando adeguatamente gli elementi che si avevano in ballo, perdendosi tra pensieri in voice over e riti d’accoppiamento, Salvatore Mereu si espande rimanendo, paradossalmente, più ristretto a se stesso, per un’opera che sarebbe stato meglio lasciare nascosta nel retroterra di cui tratta.