Biografilm 2022 – Atlantide: recensione del film di Yuri Ancarani
Il film di Yuri Ancarani che racconta una gioventù aliena, perduta fra le acque della laguna veneta.
Quest’anno il Biografilm Festival 2022 ha proposto una retrospettiva sull’opera di Yuri Ancarani. Il regista ravennate che nella sua carriera ha spaziato dalla videoarte al documentario si è imposto, nel 2021, come una delle voci più interessanti nel panorama del cinema italiano, grazie al suo primo lungometraggio di finzione, Atlantide.
Il film, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e candidato al David di Donatello, è un’opera complessa. L’autore è partito dall’osservazione di una sottocultura giovanile locale, sviluppatasi fra i canali e gli isolotti attorno alla laguna veneta: una comunità fatta di ragazzi adolescenti o poco più che passano le giornate fra rave party e corse su motoscafi lagunari, trasformati in pericolosi bolidi da competizione. Ancarani ha cercato un contatto con questi ragazzi, attraverso la musica della loro generazione, la trap. Infine, una volta entrato in questo universo, ha potuto costruire insieme a loro, la storia di Daniele, giovane emarginato anche fra i suoi coetanei, che vive di espedienti e ha come unico scopo nella vita quello di rendere il suo barchino il più veloce.
Atlantide rientra a pieno titolo in una tradizione liminare del cinema europeo contemporaneo. Quella che attraverso un linguaggio estetico rigoroso, vuole far dialogare la narrazione finzionale con delle porzioni di realtà accuratamente selezionate. A questo scopo la macchina da presa viene posizionata dal regista stesso e da Chiarello (co-autore della fotografia) sempre in modo da mantenere una certa distanza rispetto ai protagonisti e agli eventi. Immagini monumentali, che restituiscono architetture quasi oniriche, si alternano a piani-sequenza che seguono di spalle i giovani, a grandangoli che mostrano le interazioni dentro i barchini o a primi piani dei ragazzi, illuminati dai neon, mentre sfrecciano lungo i canali. Con il procedere della vicenda, però, i punti di vista diventano sempre più insoliti, fino ad arrivare alla soggettiva finale, girata dalla prua di un barchino e non riferibile ad alcun personaggio in particolare. Durante l’ultima mezz’ora del film, quindi, la macchina da presa si inoltra fra gli anfratti e i vicoli sommersi di Venezia. Compie dei movimenti innaturali, segno della natura non umana dello sguardo inscenato, gira infine di novanta gradi, per costruire, con le simmetrie dei riflessi di strade e palazzi sull’acqua, una mise en abyme prospettica, degna dell’Escher più raffinato.
La gioventù aliena di Atlantide, perduta fra le acque della laguna veneta
Sebbene allora vi si possa rintracciare un accenno di realismo documentaristico simile a quello che innervava la struttura di un’opera come L’età inquieta (Dumont, 1997), per via della storia di iniziazione all’età adulta, l’utilizzo di non-attori e i riferimenti diegetici al processo filmico, il lavoro di Ancarani è più legato al cinema d’avanguardia. Egli parte dall’osservazione quasi naturalista di un mondo primitivo, per poi lentamente scivolare verso un simbolismo radicale. L’elemento umano è destinato a esser inghiottito da quello naturale/acquatico. Con il procedere della vicenda di Daniele e la progressiva astrazione della costruzione dell’immagine, l’elemento acquatico diventa sempre più predominante. Viene messa in campo l’idea tipica di un certo cinema delle origini (si veda la scuola francese che va da a Epstein a Vigo, passando per L’Herbier, Mitry e Grémillon) per cui il mare e l’acqua non sono solo oggetti di percezione particolare, ma rappresentano essi stessi un sistema di percezione altro, rispetto a quello terrestre. Un sistema che travalica l’umano e fa riferimento alla fluidità dell’elemento liquido, al suo incessante movimento, inteso come metafora della fluidità dello sguardo – dunque della percezione della realtà – della macchina da presa.
In questa prospettiva le manipolazioni meccaniche della visione, offerte dai procedimenti tecnici del cinema, assumono lo scopo di rimodulare la percezione stessa dello spettatore. Quest’ultimo infatti lentamente smette di essere mero osservatore e diventa compartecipe di questo nuovo sguardo percipiente, in grado di penetrare un più profondo strato di realtà. Quello di una Venezia città ideale, fantasmatica e invisibile all’occhio umano. Una città che diventa la traccia ultima di una civiltà sul punto di essere sommersa – o forse già sommersa – esattamente come la città perduta di Atlantide.