Venezia 76 – Atlantis: recensione
La nostra recensione di Atlantis, film di Valentyn Vasyanovych presentato a Venezia 76: un racconto distopico che rivive il terribile conflitto Ucraino.
Il miglior film della sezione Orizzonti del Festival del cinema di Venezia 2019 è Atlantis. Il film del regista ucraino Valentyn Vasyanovych racconta una storia distopica, anche se il futuro in cui è ambientata è relativamente vicino. Siamo in Ucraina orientale, nel 2025, dopo una fantomatica guerra che ha generato un deserto inadatto all’abitazione umana. Il protagonista è Sergiy, un ex soldato affetto da Sindrome Post-Traumatica da stress, ha enormi difficoltà ad adattarsi alla sua nuova realtà. La sua vita è andata in pezzi, come quella dell’amico che presto muore suicida. In questo nuovo mondo la terra è in rovina e la fonderia dove lavora presto chiuderà i battenti. In un mondo desolato, in cui Sergiy non ha posto, ci sono ancora dei volontari che dedicano il loro tempo libero a riesumare cadaveri di guerra, per dargli una degna sistemazione. Il protagonista si unisce ai volontari della missione Tulpano nero e in questa attività cercherà di guardare a un futuro migliore.
Venezia 76: Joker vince il Leone d’Oro! Ecco tutti i premiati
Atlantis: un dramma di guerra ambientato in un futuro prossimo
Partendo dall’urgenza di raccontare il conflitto armato che l’Ucraina ha dovuto sostenere dal 2014 fino al 2017 nella zona orientale del paese (il Donbass) Valentyn Vasyanovych ha costruito un dramma bellico che racconta le conseguenze che la guerra porta con sé. Devastazione di territori naturali, macerie, case disabitate, inquinamento, disoccupazione, disperazione e depressione sono infatti tematiche inserite in Atlantis che principalmente però segue il dramma di un uomo che deve ritrovare un posto nel mondo e soprattutto una motivazione per continuare la sua vita. Grande merito va all’attore protagonista, Andriy Rymaruk, un ex soldato che ha davvero combattuto la guerra e che grazie a questa esperienza ha potuto dare maggiore enfasi al personaggio di Sergiy.
Il gruppo di volontari del Tulipano nero inoltre esiste davvero: si tratta di una missione umanitaria che si impegna a rilevare i soldati morti di entrambe le parti. Una missione simbolica che porta speranza di pace e che riunisce nella dignità i corpi degli eroi ormai senza fazione.
La grande forza di Atlantis è nella regia
È ovvio che la guerra è guerra e da qualunque lato la si guardi è impossibile non restare scioccati dalla ferocia, dalla violenza, e abbracciare l’idea di chi racconta con sguardo personale i martiri e le devastazioni psicologiche che i conflitti armati portano nelle persone che la vivano e nei territori in cui si svolgono, ma è difficile anche rappresentare un conflitto, quello del Donbass, che porta ancora tantissime contraddizioni e che in molti hanno inglobato nella storica tensione tra USA e Russia. Stilisticamente Atlantis è potente, la regia è curatissima, con quadri perlopiù fissi e rigorosi, e regalano alcune immagini non abbandonano facilmente la mente: dall’autopsia di un cadavere di guerra, alle immagini iniziali a infrarossi, fino allo sversamento dei rifiuti tossici della fonderia. Poco montaggio e poco movimento, quasi a rievocare lo stile documentaristico per lasciar parlare direttamente lo scenario desolato e i personaggi in campo.
Quello che colpisce di più di questo film è la riflessione sull’uomo, sull’anima dei soldati che sopravvivono alla guerra: una croce e un numero ai morti, l’anima spezzata è quella che resta ai sopravvissuti.