Backtrace: recensione del film con Sylvester Stallone
In seguito ad una rapina finita male, Donovan Macdonald ha totalmente perso la memoria, dimenticando anche dove si trovi il bottino. La speranza, per lui e per i suoi soci, è riposta in una pericolosa cura sperimentale...
Guardando i 92 stiracchiati minuti di Backtrace due domande nascono spontanee: cosa spinge esattamenteSylvester Stallone a prendere parte a certi progetti? E, non meno importante, esiste davvero un pubblico di riferimento per questi film? Per entrambe le questioni abbiamo una pronta risposta.
Sly, nel suo contratto in essere con la casa di produzione EFO Films, ha dovuto prendere parte in questi ultimi anni ad alcune pessime operazioni, spesso in veste da special guest per attirare un ventaglio più ampio di spettatori. Fra i Creed, i Mercenari e i Rambo, quindi, spiccano cose come Escape Plan 2 e 3, ad esempio, oppure come Backtrace. Lavori talmente minori da non meritare neanche l’uscita in sala.
E qui arriviamo al secondo interrogativo: il bacino d’utenza di Backtrace è a tal punto esiguo da non giustificare il passaggio al cinema, se non in strutture selezionate e in contemporanea con l’on demand. Tutto questo prende il nome di straight-to-video, che rende bene l’idea perché sembra quasi una esclamazione: direttamente alla riproduzione casalinga, senza passare dal via. Così, gettato nella mischia magari della programmazione tv e/o dei cestoni dei dvd in sconto del centro commerciale, il danno è limitato e tutto sommato trascurabile. Anzi, da un punto di vista economico ci si guadagna anche qualcosa, obiettivo impossibile con una regolare distribuzione cinematografica.
Backtrace: storia di un’amnesia retrograda
Tutto questo per dire che Backtrace è una pellicola con enormi problemi, da qualunque punto di vista la si guardi. Volessimo parlare di uno spunto – ovvero di un soggetto – interessante, potremmo anche farlo: la storia è quella di una rapina finita bene e di una successiva suddivisione del bottino andata decisamente male, con conseguente sparatoria che porta al ferimento grave del protagonista Donovan Macdonald. Non è uno spoiler, è ciò che accade nella primissima scena del film; da qual momento la narrazione si accartoccia, facendo un salto temporale di ben 7 anni e cercando di mescolare arditamente l’action, il thriller e persino la fantascienza.
Il fatto è che Macdonald ha perso la memoria, e nessuno se non lui sa dove abbia nascosto il bottino del furto. I suoi soci quindi tornano a fargli visita, iniettandogli nella spina dorsale (!) un nuovo farmaco sperimentale che gli farà “vedere” il passato (!!) e ricostruire ciò che è stato. Non avendo un budget degno di questo nome a disposizione, viviamo di fantasia: la rapina iniziale accade fuori campo, le crisi epilettico-mistiche-isteriche di Macdonald vengono rese semplicemente muovendo a scatti la cinepresa e, in generale, tutto si svolge fra la stazione di polizia in cui l’agente Sykes di Stallone attacca bigliettini al muro con espressione corrucciata e il capannone in cui i fuggitivi cercano il malloppo perduto.
L’exploitation e la forza dello script
Tu chiamala se vuoi exploitation: è indubbio che possa e debba esistere un cinema di puro intrattenimento, identico a se stesso e privo di qualunque spessore artistico, ma il tacito patto con lo spettatore viene inevitabilmente meno di fronte al nulla esibito con il buco attorno. Backtrace è un film pigro, con una messinscena svogliata, sequenze d’azione banalissime e uno script che ammazza qualunque desiderio di immedesimazione e anche semplicemente di divertimento. Le lacune sono enormi, e vanno dai luoghi comuni da bignami dell’heist movie (il poliziotto buono contro il poliziotto cattivo, il machismo dei dialoghi e dei caratteri di contorno) alla superficialità con cui viene tratteggiato Macdonald, presente per 70 minuti circa sui 90 totali.
Il nostro eroe è all’occorrenza fragile e totalmente in balìa dei suoi frammentati ricordi e (un minuto dopo) perfettamente pronto alla battaglia con pistola e torcia alla mano. E, a completare il quadro, c’è un finale talmente ridicolo da far pensare ad uno scherzo, all’esistenza di un altro sottofinale con annesso colpo di scena. Che naturalmente non c’è, perché è tutto davvero lì davanti ai nostri occhi. Plateale, sbrigativo, involontariamente comico, in verità degna chiusura di quanto visto fino a quel momento. E soprattutto dimostrazione di quanto la sceneggiatura – anche se mancano i fondi, per quanto la recitazione sia incerta, nonostante una regia semi-amatoriale – sia un elemento fondamentale capace di elevare un prodotto al di sopra dei suoi limiti. O, all’opposto, di affossarlo definitivamente.