Bande à part: recensione del film di Jean-Luc Godard

La recensione di Bande à part, il film diretto da Jean-Luc Godard, manifesto della Nouvelle Vague, che ritorna al cinema dopo oltre 50 anni a partire dal 12 febbraio

Dopo 54 anni torna in sala Bande à part, capolavoro di Jean-Luc Godard e manifesto della Nouvelle Vague. Grazie al restauro della pellicola messa a punto dalla storica casa di produzione Gaumont e distribuito in Italia da Movies Inspired, il 12 febbraio sarà possibile ritrovare sul grande schermo questo cult della cinematografia francese: ecco, allora, un’ottima occasione per recuperare uno dei film più rappresentativi della settima arte made in Europe, in una versione in grado di restituire lo smalto della première del 1964.

Bande à part: Jean-Luc Godard e la filosofia dei miserabili

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Anna Karina, Sami Frey e Claude Brasseur nella famosa sequenza del film girata nel Museé du Louvre

Siamo a Parigi, negli anni Sessanta. La giovane Odile (un’incantevole Anna Karina) è presa di mira da due bulli di periferia, Arthur (Claude Brasseur) e Franz (Sami Frey), con cui frequenta un corso di inglese. Ingenua e chiacchierona, la ragazza si fa sfuggire l’esistenza di una grossa somma di denaro nascosta in un armadio della sua abitazione, dove convive con una vecchia zia. Il racconto del bottino fa gola, ovviamente, ai due giovanotti che iniziano a corteggiare Odile, che cede senza darsi troppi pensieri. Le conseguenze di questo pericoloso triangolo, tuttavia, e della fuga di notizie porteranno i tre ragazzi a far fronte a un finale drammatico.

Settimo film di Jean-Luc Godard, Bande à part segna il ritorno del regista al dogma originale della Nouvelle Vague.

Godard era, infatti, reduce dal set internazionale de Il disprezzo, che l’aveva visto gestire grandi budget e grandi star (una su tutte, la protagonista Brigitte Bardot). Per Bande à part, invece, Godard ricorre a una somma tutto sommato limitata (100mila dollari per l’intera produzione) e scrittura l’ormai ex moglie e prima musa Anna Karina. L’attrice sta attraversando in quel periodo un momento di grave crisi personale, in cui arriva persino a tentare il suicidio; Godard, in quello che fu l’ultimo gesto d’amore nei confronti della compagna, le propone il ruolo di Odile, ritagliandole addosso uno dei personaggi più iconici della sua carriera.

Fragile e bellissima, Anna Karina non può che accettare l’ingaggio e dà vita a una ragazza meravigliosamente sciocca, innamorata dell’amore e della musica, vanitosa e profondamente buona. Al contrario, i due protagonisti maschili incarnano i classici balordi perdigiorno della commedia di quel decennio, affascinati dal cinema d’azione americano e molto più goffi e incapaci di quanto vorrebbero dare a vedere. Arthur – che di cognome fa Rimbaud, in omaggio al poeta simbolista – è, tra i due, il più cinico e sfrontato e conquista in un colpo di fulmine tutte le attenzioni di Odile, sottraendola al ben più attraente Frank, interpretato da quello che allora era il partner della Bardot.

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I tre protagonisti nella scena del ballo nel Café de Vincennes che ispirò anche Quentin Tarantino

La trama non manca di dramma e tensione, non tralasciando tuttavia la componente riflessiva propria della nuova onda francese che in Godard trova uno dei suoi più fermi portavoce. Quella di Bande à part – così come quella di Vivre sa vie (qui l’analisi del film) e di molti altri film del regista – è una filosofia di miserabili, personaggi che vivono ai margini della società e della morale, profeti di una visione naïf del mondo, espressa in monologhi trasognati, canzoni malinconiche, danze  silenziose. Frutto del pensiero colto dei giovani cineasti protagonisti della rivoluzione culturale degli anni Sessanta, la Nouvelle Vague ha il gran merito di nobilitare le estrazioni più modeste della società, dando loro una voce importante e un pensiero profondo. La scrittura godardiana è avanguardia politica, in un’Europa che lotta per riconquistare il primato democratico e intellettuale, dopo lo sfacelo delle due guerre mondiali.

Per il regista di Bande à part, il cinema è una terra vergine, in cui l’autore è al centro della scena.

Spronato da una visione completamente personale del mezzo filmico, Godard può permettersi digressioni narrative, voci fuori campo, sguardi di sfuggita in camera. A tal proposito, resta iconica la sequenza al Louvre – geniale nel suo non c’entrare assolutamente con la storia – in cui i tre protagonisti decidono di battere il record e visitare il museo in meno di 9 minuti e 43 secondi, correndo a perdifiato tra i corridoi. La scena fu aggiunta successivamente da Godard (che aveva il timore che il film durasse troppo poco) ed è diventata, negli anni, una delle fotografie più memorabili dell’intera Nouvelle Vague, ripresa anche da Bernardo Bertolucci in The Dreamers 39 anni dopo. Spiazzante ed entusiasmante, anche la sequenza di meta-cinema in cui i personaggi decidono di provare a fare un minuto di silenzio (resistendo per soli 34 secondi), in cui la banda sonora è del tutto sospesa e non resta altro che noia e imbarazzo.

L’effetto finale è una gustosissima lezione di cinema, di cui l’autore riscrive le regole toccando picchi di originalità tutt’ora rari anche nei registi più innovativi. L’estetica di serie B, artisticamente scelta e mai casuale o sciatta, è diventata nel corso degli anni fonte di ispirazione per le generazioni successive, elemento centrale della poetica – ad esempio – dell’americano Quentin Tarantino, che riprende la sequenza della quadriglia nel Caffè a Vincennes nella celeberrima scena al Jack Rabbit Slim’s in cui Uma Thurman e John Travolta si lanciano nello scatenato twist sulle note di Your Never Can Tell di Chuck Berry.

Regia - 5
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 5

4.3