Beetlejuice – Spiritello porcello: recensione del film di Tim Burton
Recensione di Beetlejuice, tra personaggi iconici, sequenze oramai celebri ed elementi narrativi di contaminazione gotica in una commedia che ha lanciato il talento di Tim Burton.
Beetlejuice – Spiritello porcello (1988), diretto da Tim Burton, con protagonisti Alec Baldwin, Geena Davis, Michael Keaton e Winona Ryder, rientra in quella particolare categoria di pellicole degli anni Ottanta che per tutta una serie di fattori straordinari – come l’ambiente narrativo dalla forte caratterizzazione, dei personaggi iconici, e delle sequenze divenute immediatamente leggendarie – è entrata sin dal momento del rilascio nelle sale, nella storia del cinema, tanto da conquistare l’Oscar al miglior trucco nel 1989.
Beetlejuice entrò così prepotentemente nell’immaginario collettivo da dar vita a una serie animata intitolata In che mondo stai Beetlejuice? (1989-1991), a un musical omonimo nel 2018 e una serie di attrazioni nei parchi tematici della Universal Studios nel corso degli anni Novanta, ma nulla che assomigliasse a un sequel cinematografico con il ritorno di Keaton e compagni. Le voci su quel che più logicamente avrebbe permesso di proseguire con le avventure dello spiritello porcello si sono susseguite continuamente negli ultimi trentun’anni, tanto che dopo il successo della pellicola del 1988 si andò subito in lavorazione con uno squinternato script intitolato Beetlejuice goes Hawaiian nei primi anni Novanta; con i Deetz in vacanza ai tropici e Beetlejuice chiamato a intervenire per salvare Lydia e la sua famiglia da alcuni spiriti maligni tribali. Keaton e la Ryder erano praticamente a bordo del progetto, Burton pure per quanto l’idea di un beach movie con elementi gotici non lo esaltasse particolarmente. Il successo di Batman (1989) però, spinse il regista statunitense ad accantonare il progetto, lasciandolo lì, nel dimenticatoio, in attesa di un rimaneggiamento del soggetto che non è mai arrivato.
Nulla di fatto quindi per il proseguo di Beetlejuice, che al momento della sua uscita riuscì a convincere critica e pubblico per la sua fortissima creatività, un qualcosa che fino a quel punto non s’era mai vista in una commedia. Un elemento che rende Beetlejuice non soltanto un unicum nel panorama cinematografico del periodo e un’autentica lezione di scrittura cinematografica moderna, ma anche e soprattutto, un importante memo su come non sprecare mai più un franchise dal potenziale narrativo così forte e illimitato.
Beetlejuice: una mitologia dalle solide basi e la costruzione del ruolo narrativo di spirito
La grande forza narrativa di Beetlejuice infatti, è quella di porre dopo pochissimi minuti di pellicola delle fondamenta solide per la creazione di una mitologia e di un “mondo-altro”; fatto di regole ferree ben esplicate nel Manuale del novello deceduto, e di personaggi bislacchi che sembrano usciti da una versione light e family friendly del cinema di David Cronenberg. Delineando così un ambiente narrativo dalla forte caratterizzazione e dal grande potere immersivo, valorizzato dalla regia di Burton, autentico maestro nel saper contaminare le narrazioni attraverso elementi gotici e/o fantastici, declinato nel caso di Beetlejuice in una commedia classica rievocante nelle tempistiche e nei toni, il formato televisivo della sit-com familiare tanto in voga in quel periodo.
I personaggi di Baldwin e Davis si trovano così a dover fare i conti con il loro nuovo “ruolo sociale”, attraverso una caratterizzazione che spinge verso la creazione graduale di una nuova identità narrativa e che la sceneggiatura di Beetlejuice – nell’incedere di un intreccio solido e affascinante – si dipana procedendo per gradi lungo tutto il primo atto. Adam e Barbara infatti, si ricostruiscono come spiriti, ora cercando di capire perché non riescono a varcare la soglia di casa se non ritrovandosi in uno spettrale mondo desertico popolato dagli Allghoi Khorhoi, ora cercando di specchiarsi senza trovare il proprio volto riflesso, ora disegnando porte sui muri per accedere nell’Aldilà (o più precisamente al Neitherland). Entrando così in contatto con un mondo straordinario fatto di immagini ripescate dall’immaginario dell’espressionismo tedesco e di perimetri geografici e temporali – funzionali alle effettive manifestazioni – dotato di una propria burocrazia dai colori vivaci e da personaggi sempre più pittoreschi.
È proprio l’accettazione del ruolo di spiriti dei coniugi Maitland ad alzare la posta in gioco nel conflitto. L’ingresso in scena dei nuovi proprietari della casa, i coniugi Deetz – Charles e Delia (interpretati rispettivamente da Jeffrey Jones e Catherine O’Hara), e della figlia Juno (interpretata da Winona Ryder) – una famiglia disfunzionale totalmente opposta e antitetica rispetto ai pacifici Maitland. Accettarlo tuttavia, non implica il saperlo sfruttare appieno, si dipana così una struttura narrativa dal doppio arco a incrocio, dove i progressi nel soprannaturale dei Maitland si oppongono all’inserimento sociale dei Deetz, la cui figlia Juno, diventerà l’anello di congiunzione tra i due archi e i due mondi perché “la gente normalmente ignora ciò che strano e oscuro”. Juno infatti, con la capacità di riuscire a guardare oltre il mondo terreno, costruirà lentamente la sua identità nell’ambiente narrativo di Beetlejuice, trovando sé stessa e un’armonia familiare disattesa.
Beetlejuice: “Dite il mio nome, ditelo due volte e alla terza io arriverò!”
Lo spiritello porcello che dà il titolo al film di Tim Burton, Beetlejuice, entra in scena non prima della fine del secondo atto con un minutaggio di appena diciassette minuti; scelta sicuramente insolita se si considera che in campagna promozionale venne delineato come l’assoluto protagonista, in quello che è a tutt’oggi il ruolo iconico che ha reso celebre il suo interprete Michael Keaton. E non solo, perché Beetlejuice è divenuto certamente uno dei personaggi più affascinanti del cinema hollywoodiano degli anni Ottanta, con il suo stile sboccato, e una caratterizzazione fisica figlia del cinema horror, ma declinata in un abito comico-grottesco da cartone animato, che divenne poi il terreno fertile della saga.
Beetlejuice infatti, presentato in scena come un bio-esorcista che inghiotte, vomita, sputa, fa porcate di ogni genere e che ha visto L’esorcista (1973) ridendo a crepapelle tutte e 170 le volte, diventa funzionale alla narrazione in un triplice modo. Beetlejuice rappresenta la via facile, l’alternativa allo sviluppo regolare – e dal ritmo lentissimo – della burocrazia dell’Aldilà; configurandosi così nel ruolo di aiutante e/o alleato per i coniugi Maitland e per la realizzazione dei propri scopi da infestatori di case, per poi divenire il villain alla base della narrazione. Un ruolo narrativo affascinante, bivalente, che denota una scrittura alla base di Beetlejuice di grande valore e fortemente ispirata. L’ingresso in scena dello spiritello porcello alza decisamente il livello del conflitto nel terzo atto, tra possessioni demoniache al ritmo di Harry Belafonte, manifestazioni circensi, e momenti suggestivi dal forte impatto nell’immaginario collettivo.
Beetlejuice: Shake shake señora, e l’armonia familiare di un cult immortale
Sono proprio gli eventi in chiusura di terzo atto sulle note di Shake shake señora del sopracitato Belafonte, a dare la svolta a Beetlejuice, con il ritrovamento di un’armonia familiare tra tutti i membri della casa in una pacifica convivenza dopo lo stravolgimento delle dinamiche dovuto al blitz narrativo di Beetlejuice. Per una pellicola ormai divenuta celebre cult del cinema degli anni Ottanta piena espressione della contaminazione di genere e di quel particolare modo di fare cinema, che ha permesso a Tim Burton – nei successivi due anni – di crearsi una solida fama di “rielaboratore di immaginari” tra questa pellicola, Batman, e il susseguente Edward Mani di forbice (1990). In attesa di un sequel, tanto paventato negli anni, ma oramai fuori tempo massimo.