Being George Clooney – recensione del documentario

Una volta letto il titolo, viene spontaneo pensare che Being George Clooney sia un documentario sul celebre attore. Eppure, in realtà, non è proprio così.

Una volta letto il titolo, viene spontaneo pensare che si tratti di un documentario sul celebre attore statunitense. Eppure, in realtà, non è proprio così: malgrado il suo nome ingannevole, Being George Clooney è un’analisi superficiale dell’industria del doppiaggio, un’analisi in cui George Clooney non è altro che un MacGuffin, uno strumento necessario a dare una coerenza all’intero film.

In Italia, ci siamo abituati a sentire Al Pacino parlare con la voce di Ferruccio Amendola in Scarface e con quella di Giancarlo Giannini ne Il mercante di Venezia. In Il diavolo veste Prada abbiamo associato il volto di Meryl Streep alla parlata di Maria Pia Di Meo, mentre Oreste Lionello ha prestato la sua voce a Woody Allen per più di quarant’anni. George Clooney, invece, è stato doppiato da Francesco Pannofino. Distruibuito sulla piattaforma streaming di Netflix, Being George Clooney si concentra sull’irriconosciuto merito artistico del lavoro di Francesco Pannofino e di altri attori internazionali – il tedesco Martin Umbach, l’indiano Shaktee Singh, il turco Tamer Karadagli e il brasiliano Marco Antonio Costa– che, come lui, hanno prestato la propria voce a uno dei più importanti attori del cinema hollywoodiano.

Being George Clooney cerca di svelare i segreti dell’industria del doppiaggio, l’arte dell’illusione

Being George Clooney cinematographe.it

Cosa significa prestare la propria voce al volto di una star di Hollywood, celebre in tutto il mondo? Diretto da Paul Mariano nel 2016, Being George Clooney ha l’obiettivo di dare una risposta a questa domanda, trasportando lo spettatore in un viaggio nel panorama del doppiaggio, l’arte dell’illusione, mostrando la quotidianità degli stessi doppiatori.

Di solito i documentari che decidono coraggiosamente di far luce su condizioni sconosciute ai più si rivelano essere affascinanti, capaci di attrarre e interessare lo spettatore, il quale, catapultato in un ambiente che non gli appartiene, cerca di far suo il più grande numero di informazioni che gli vengono trasmesse all’interno del film. Cercando di offrire uno scorcio di un paesaggio che, suo malgrado, viene spesso ignorato, Being George Clooney si fonda su premesse interessanti che, sin dall’incipit del film, scadono nella banalità del semplicismo in un susseguirsi di difetti fastidiosi e imperdonabili. A partire dal titolo, per esempio: che cosa c’entra George Clooney in questo documentario? Per quale motivazione logica è stato scelto proprio lui e non Brad Pitt?

Snodandosi attraverso interviste a produttori e doppiatori provenienti da un eterogeneo panorama internazionale, accomunato solamente dal lavoro svolto sui prodotti hollywoodiani, la struttura del lungometraggio di Paul Mariano non contiene alcun elemento di originalità, caratterizzandosi come l’ennesima ri-presentazione degli stilemi dell’arte documentaristica più tradizionale, mantenendo lo stesso tono per l’intera durata del film. E forse, anche per questa motivazione, tende ad annoiare subito il suo pubblico.

Being George Clooney: l’apologia di un’arte decaduta

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Compaiono sullo schermo attori che parlano con voci non loro, privati delle proprie parole, della propria lingua, del proprio accento e, quindi, della propria essenza. Si trasformano in corpi ingiustamente imprigionati in suoni che non gli appartengono. Vengono deformati e spersonalizzati.

È come se Paul Mariano fosse convinto di essere il portatore di una verità assoluta e indiscutibile. Apologia di un’arte ormai decaduta, documentario che manca di profondità e di un concreto messaggio informativo, Being George Clooney cerca di fornire delle risposte riguardanti una questione controversa che sta dividendo il paesaggio cinematografico da anni offrendo una prospettiva univoca: senza soffermarsi nemmeno per un secondo su quelli che sono gli effetti negativi del doppiaggio, il documentario si fa portavoce di un discorso buonista, semplicista e dualista, in cui i doppiatori vestono i panni dei buoni e i restanti rappresentanti dell’industria cinematografica, invece, quelli degli antagonisti senza cuore. In poche parole, un documentario da guardare a tempo perso.

Regia - 2.5
Fotografia - 2.5
Sonoro - 3
Emozione - 1.5

2.4

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