Beirut: recensione del film Netflix con Jon Hamm e Rosamund Pike
Il nuovo spy thriller Netflix cerca di tratteggiare un convincente quadro del Libano e dell'area circostante, non riuscendo però pienamente nell'impresa.
Beirut è un film del 2018 scritto da Tony Gilroy (sceneggiatore di The Bourne Identity, L’avvocato del diavolo e Rogue One) e diretto da Brad Anderson (L’uomo senza sonno), con protagonisti Jon Hamm, Rosamund Pike, Mark Pellegrino, Shea Whigham e Dean Norris. Dopo la presentazione al Sundance Film Festival e la distribuzione nelle sale statunitensi, Beirut è stato distribuito in streaming da Netflix a partire dal 15 giugno.
Nella Beirut del 1972, Mason Skiles (Jon Hamm) lavora come diplomatico statunitense in Libano, dove vive insieme alla moglie Nadia e a Karim, ragazzo orfano di cui ha deciso di prendersi cura. Poco dopo aver ricevuto dall’amico e collega Cal Riley (Mark Pellegrino) la notizia che il fratello di Karim è collegato al tristemente noto attentato a Monaco, Mason rimane coinvolto in un attacco, durante il quale il ragazzo viene rapito e la moglie perde la vita. Dieci anno dopo, Mason cerca ancora di elaborare il lutto, in bilico fra un onesto lavoro come negoziatore nel New England e l’alcolismo che lo divora. L’uomo viene contattato da alcuni esponenti governativi, fra cui l’agente CIA Sandy Crowder (Rosamund Pike), che lo rivogliono in una Beirut afflitta dalla guerra civile per negoziare il rilascio del vecchio amico Cal, rapito da alcuni malavitosi.
Beirut: il nuovo spy thriller Netflix
Con Beirut, la penna di Tony Gilroy e la mano di Brad Anderson mettono in scena uno spy thriller d’ambientazione e struttura narrativa tipicamente anni ’80, lontano per toni e atmosfere dalle recenti derive pop del genere come Kingsman – Secret Service o Atomica Bionda e sorretto principalmente dall’ottima interpretazione di Jon Hamm, alla sua migliore performance dopo l’addio all’iconico personaggio di Don Draper in Mad Men. La guerra civile libanese fa da cornice a una storia di tradimento e di riscatto, di cadute e risalite, forte di buoni dialoghi e alcuni notevoli momenti di tensione ma penalizzato da uno schematismo narrativo che divide la maggior parte dei personaggi in buoni e cattivi, ricorrendo maldestramente a stereotipi culturali ormai impresentabili.
Con il passare dei minuti, in Beirut si viene a creare un netto scollamento fra un’analisi pressoché assente dei contrasti religiosi e sociali alla base della guerra civile e l’apprezzabile introspezione del personaggio di Mason, carismatico e allo stesso tempo detestabile, interiormente fragile e contemporaneamente sicuro dei propri mezzi, forte di un arco narrativo ben gestito e calibrato. Una fotografia dai toni artificiosamente cupi e una regia al risparmio sia in termini scenografici che nella gestione della scena contribuiscono a dare la sensazione di trovarsi davanti a niente di più che un buon prodotto televisivo della fine degli anni ’80 ormai fuori tempo massimo, godibile a tratti ma fondamentalmente innocuo e dimenticabile.
Beirut fallisce nel tentativo di tratteggiare un convincente quadro del Libano e dell’area circostante
Con la trama incanalata verso binari ampiamente rodati e risvolti ampiamente prevedibili, il tema più interessante e convincente diventa quello della fiducia: fiducia verso le istituzioni che Mason deve riconquistare, fiducia da parte degli intermediari governativi (fra cui il sempre efficace Dean Norris) in lui, fiducia fra vecchi amici e colleghi, separati dal tempo e dalle asperità della vita. Convince inoltre il rapporto che si costruisce fra Mason e la Sandy Crowder abilmente portata in scena da Rosamund Pike, scevro da banali e scontate dinamiche sentimentali ed efficacemente incentrato su una lenta e reciproca apertura da parte di due persone schive per natura e diffidenti per lavoro.
Tirando le conclusioni, Beirut si rivela niente di più che un mediocre thriller di spionaggio, che non aggiunge nulla di nuovo al genere e sconta dal punto di vista dell’ambientazione il peccato originale di dipingere i mediorientali come aggressori e gli occidentali come salvatori, senza addentrarsi nelle complesse dinamiche sociali che condizionano il Libano e l’area circostante. Le buone interpretazioni del cast e alcuni convincenti dialoghi, capaci di scavare nel profondo dei personaggi, evitano comunque al film il tracollo, rendendolo un prodotto pienamente fedele al target dei film originali Netflix, costituito perlopiù da pallide rivisitazioni di generi e sottogeneri non più sulla cresta dell’onda.