Blood on Melies’ Moon: recensione del film di Luigi Cozzi
Le origini del cinema e la fine del mondo si incontrano in Blood on Melies’ Moon, film d’apertura del Fantafestival 2016 e ultimo film di Luigi Cozzi.
Le origini del cinema e la fine del mondo: i due eventi sembrerebbero visibilmente connessi in Blood on Melies’ Moon, film d’apertura del 36esimo Fantafestival e ultima opera di quel Luigi Cozzi particolarmente attivo nel cinema di fantascienza e dell’orrore dagli anni ’70 al calare degli anni ’80, periodo in cui sembrò aver suggellato la propria carriera con lavori dimenticabili come Paganini Horror e Il Gatto Nero.
L’apocalisse è imminente, mondi paralleli sono sul punto di scontrarsi in un impatto che spazzerà via tutto, e il destino dell’umanità (ma anche, e soprattutto, della preziosissima arte del cinema) è nelle mani di un uomo solo. Uomo che, poi, non è altri che Cozzi stesso.
La scelta sembrerebbe alquanto azzardata e pretenziosa, in particolare se il soggetto di cui si tratta ha sempre sollevato dubbi riguardo l’importanza del suo apporto artistico nel campo del cinema di genere italiano. Eppure funziona, e convince. Funziona quando l’uomo dona tutto se stesso all’opera, che si fa autoritratto autentico, amabile, mai compiaciuto, dell’artista-uomo in rapporto alla propria arte, prescindendo dalla qualità di quest’ultima.
Blood on Melies’ Moon: il ritratto autentico di un artista
Tutto parte dall’indagine sulla nascita del cinema: anni prima che i Lumière brevettassero la loro invenzione, un certo Louis Aimé Augustine Le Prince sarebbe arrivato – prima di sparire a bordo di un treno – a comprendere il funzionamento che è alla base del processo ideato dai due ben più celebri fratelli.
Si dispiega una fittissima rete di enigmi che, spesso, lo sguardo di Cozzi fatica a focalizzare, avviluppando una serie di personaggi tanto misteriosi quanto bizzarri – difficile dimenticarsi della comparsa di Lamberto Bava, o di quella di una Barbara Magnolfi che quasi sembra replicare la morte che la rese celebre in Suspiria – e oggetti mistici, fra cui il libro L’Univers Vagabond, le quali origini sono oscure e che, alla fine, si rivela essere un portale o un marchingegno per il viaggio dimensionale, per slittare avanti e indietro sulla linea del tempo e dello spazio, a bordo del cannone scagliato dal Georges Méliès per compiere il suo “voyage dans la lune” nel 1902.
Viaggi, magia, illusione sono alla base della filmografia di Luigi Cozzi
Viaggi, magia, illusione: tutti elementi che, per Cozzi, sono chiaramente alla base del cinema, e tutti pretesti perché sia possibile far sfoggio del suo amore per effetti grossolani, kitsch, psichedelici, che ben si accompagnano alle svolte narrative volutamente ridicole, che pur adempiono al proprio compito: quello di intrattenere.
E il regista ci riesce perfettamente, unendo, a quest’esplosione di colori e di prove attoriali decisamente sopra le righe e a dir poco grottesche, frammenti di una vita quotidiana divisa fra la gestione di Profondo Rosso (il negozio-museo degli orrori di Dario Argento, amico del regista), caratterizzata dalla comparsa di buffi personaggi, e la convivenza con la compagna, costretta a subire e tollerare i deliri notturni di un artista che si definisce (e viene definito) l’Ed Wood italiano.
Lasciando da parte il plot thriller che vede, come da manuale nel miglior thriller italiano anni ’70, un assassino mascherato collezionare quante più vittime può (e chissà secondo quale criterio), e tralasciando anche la grande parentesi dell’apocalisse scatenata da una sorta di piega nel tessuto spazio-temporale, il baricentro dell’ultima opera di Luigi Cozzi è senza dubbio Luigi Cozzi, che si osserva allo specchio e riconosce nelle immagini un soggetto concreto in grado di osservarci, di esaminarci, di perseguitarci in sogno e nella realtà, e bollando tutto ciò come, appunto, semplici deliri notturni.
“il baricentro dell’ultima opera di Luigi Cozzi è senza dubbio Luigi Cozzi”
Un uomo che, preso dall’entusiasmo di aver fatto una scoperta sensazionale, si mette alla ricerca della soluzione di un enigma che (forse) non ha né capo e né coda, ricordandosi di portare con sé un libro di storia del cinema da ripassare, perché “potrei averne bisogno”.
Aldilà di una trama colma di buchi, di lacune più che di imprecisioni, laddove tutto viene detto e viene successivamente negato o dimenticato nella grande tela di indovinelli e misteri da decifrare, Blood on Melies’ Moon non rappresenta altro, in fondo, che la sincera raffigurazione di un uomo che si osserva allo specchio e si scruta con autoironia e consapevolezza delle sue abilità, ma che si mette a servizio completo dell’arte cui ha dedicato tutta la propria esistenza, confezionando un prodotto in grado di divertire in maniera genuina, composto pezzo per pezzo lungo l’arco di parecchi anni, e che si stampa nella memoria, nel bene e nel male.