Boiling Point – Il disastro è servito: recensione del film di Philip Barantini

L’opera seconda di Philip Barantini, è un angosciante dramedy culinario interpretato da uno Stephen Graham in stato di grazia.

Nelle sale italiane dal 10 novembre 2022 Boiling Point – Il disastro è servito è il dramedy culinario di Philip Barantini con Stephen Graham, Jason Flemyng, Ray Panthaki, Hannah Walters, Malachi Kirb, distribuito da I Wonder Pictures.

Si dice che l’acqua bolle quando raggiunge i 100° C ed è senz’altro vero, ma è altrettanto vero che ciò avviene quando ci si trova in una zona la cui altitudine è nulla, quindi al livello del mare. Dunque il cosiddetto punto di ebollizione può variare grado più, grado meno, a seconda della pressione atmosferica presente nell’area dove tale processo viene messo in atto. Vi starete giustamente chiedendo come mai si è chiamata in causa una questione di carattere scientifico in uno spazio dedicato alla Settima Arte? Il perché sta nel fatto che il film in questione, che risponde guarda caso al titolo di Boiling Point – Il disastro è servito, ha nel raggiungimento della temperatura massima della tensione all’interno delle cucine di un ristorante stellato la frantumazione del climax. Viene da sé il parallelismo tra ciò che per natura accade all’acqua quando viene sollecitata da una fonte di calore e la rottura degli equilibri quando uno o più esseri umani vengono sottoposti a un carico eccessivo di stress.

In Boiling Point, il regista britannico raggiunge un livello altissimo di realismo

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È quanto accade allo Chef, alla sua brigata e al personale di sala di un rinomato ristorante di lusso nel cuore di Londra protagonisti dell’opera seconda di Philip Barantini, in uscita nelle sale nostrane il 10 novembre 2022 con Arthouse (nuovo progetto editoriale di I Wonder Pictures dedicato al cinema d’essai) dopo la conquista di svariati riconoscimenti nel circuito festivaliero internazionale tra cui i premi vinti alla 68esima edizione del Taormina Film Fest (miglior film, regia e attore). Il regista britannico, con un approccio quasi documentaristico, dato dal livello di realismo che riesce a raggiungere nella messa in scena, ci immerge nel dietro le quinte di un ristorante stellato alle prese con un servizio complicato in una serata altrettanto complicata. E lo fa con una verità e un attaccamento tali da riuscire a spodestare dal trono anche il cocking show più credibile e popolare del piccolo schermo. Un merito, questo, che va riconosciuto al cineasta di Liverpool, bravissimo a trasformare le intenzioni della sceneggiatura scritta a quattro mani con James A Cummings, in fatti, nello specifico nella catena di tragici eventi che porteranno al fatidico, inevitabile e catastrofico boiling point.   

Barantini mette in quadro un dramedy che prende le sembianze di un vorticoso giro di vite

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Partendo dal cortometraggio omonimo del 2019 da lui stesso diretto, Barantini mette in quadro sulla lunga distanza un dramedy che prende le sembianze di un vorticoso giro di vite consumato nell’arco di una serata che segnerà in maniera indelebile i presenti a una cena della Vigilia di Natale nel ristorante che fa da cornice al film.  Questo microcosmo si tramuterà in una polveriera di tensione crescente destinata a implodere. Dal primo all’ultimo frame utile il capo chef dovrà fronteggiare problemi sia personali che dei singoli componenti del suo staff, al quale se ne andranno a sommare altri provenienti dalla nutrita e variegata clientela, nella quale troviamo un famoso collega e una temuta critica gastronomica. Ancora una volta, nel giro di pochi giorni dell’uscita l’uno dall’altro, in The Menu  prima e in Boiling Point ora l’alta cucina e la tensione entrano in rotta di collisione diventando gli ingredienti di una portata squisita al palato dei buongustai  ma indigesta allo spettatore cinematografico. Gli esiti del servizio dei ristoranti di turno, entrambi stellati e in location esclusivi, sono entrambi disastrosi, con l’accumulo e l’esplosione della tensione che fanno da ingrediente principale di entrambe le ricette, anche se usate in modi diversi e con esiti diversi. Diversi sicuramente, con il film di Mark Mylod che spinge tutto sino alle estreme conseguenze, ma accomunati dal binomio cinema-cucina come strumento per puntare il dito contro i vizi e il malcostume della Società odierna, oltre che dal fatto di averli concentrati in un’unica location.  Una cosa però è certa, dopo averli visti, entrare in un ristorante stellato non sarà più la stessa cosa.    

Tutto si consuma in un piano sequenza studiato nei minimi dettagli che assomiglia sempre di più a una staffetta di atletica

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Analogie a parte, che lasciano sempre il tempo che trovano, la pellicola del regista britannico ha qualcosa che quella del connazionale non ha e che ne caratterizza la messa in quadro. Quel qualcosa è il piano sequenza, che Barantini utilizza per creare un’esperienza filmica immersiva in presa diretta che si consuma in un’unità spazio-temporale di una serata burrascosa dove succede di tutto e di più. Il risultato è una novantina di minuti circa vissuti in apnea, con gli spettatori che assistono a un “valzer” a ritmo sempre più sostenuto che vede la macchina da presa guidata dal direttore della fotografia Matthew Lewis sgusciare tra i tavoli e dietro il bancone, con qualche breve sortita nel retrobottega e nel parcheggio, sia con passaggi millimetri e chirurgici che con gli scatti sporchi e concitati di un animale chiuso in gabbia. Si assiste a un continuo scambio di testimone tra i vari personaggi chiamati in causa, in una sorta di coreografia studiata nei minimi dettagli che assomiglia sempre di più a una staffetta. Barantini, che con la cinetica ha dimostrato di avere una certa confidenza visto il precedente della sua opera prima Villain, un poliziesco vecchia scuola in odore di action, sfrutta appieno la tecnica del one-shot, rendendola funzionale al racconto e alla sua mission. Ma a onor del vero il suddetto espediente qui non sortisce l’effetto del wow, eccitante o mozzafiato come una volta, perché si tratta di una tecnica che è stata realizzata in modo più spettacolare e con più ambizione altrove. In Boiling Point funziona, svolge il compito che il regista gli ha affidato in termini di lavoro sul ritmo e sulla gestione dello spazio, ma non rappresenta un valore aggiunto tale da spostare gli equilibri.

In Boiling Point la differenza la fa l’intero cast guidato da un sorprendete Stephen Graham

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A fare la differenza semmai ci pensano gli attori chiamati di volta in volta in causa, tutti perfettamente in parte e ciascuno a proprio modo tasselli chiave per la composizione di un mosaico di umanità a confronto, tanto dialettico quanto psicologico, affettivo e persino fisico. Il vero valore aggiunto di Boiling Point è il cast e la performance corale, dove però spicca uno Stephen Graham in stato di grazia che con la sua interpretazione nei panni dello Chef Andy Jones è straordinario nel restituire al pubblico attraverso le reazioni del suo personaggio il “magma incandescente” dei tormenti, le paure, l’angoscia, lo stress, la fretta e l’ansia delle moderne dinamiche lavorative e familiari. Che le interpretazioni potessero rappresentare l’ingrediente vincente della ricetta non avevamo dubbi, vista l’esperienza ventennale del regista davanti la macchina da presa e il contributo di un mix di attori di talento ed esperienza tra cui Jason Flemyng, Vinette Robinson e Ray Panthaki.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3
Recitazione - 4.5
Sonoro - 3
Emozione - 4

3.7