Bone Tomahawk: recensione del film con Kurt Russell
La legge e il sangue. In Bone Tomahawk il regista, sceneggiatore e compositore S. Craig Zahler omaggia il western più classico per poi stupire con un’inedita deriva splatter.
Nel suo lungometraggio d’esordio, il regista, sceneggiatore, compositore e direttore della fotografia S. Craig Zahler riversa quella che è stata la sua precedente carriera da romanziere e quella che sarà la sua carriera da cineasta. In Bone Tomahawk, infatti, non solo si percepisce la peculiarità registica del suo cinema che utilizza l’esplosione dell’atto violento come risultato di un’attesa precedentemente dilungata e fattasi persino desiderare, ma si mette in atto la stratificazione narrativa in più generi, anche se, in Bone Tomahawk più che di stratificazione è più giusto parlare di diramazione. Il film del 2015 a cui seguiranno l’action carcerario Cell Block 99 (2017) e il buddy movie con Mel Gibson Dragged Across Concrete (2019) omaggia la classicità e la sabbiosità delle ambientazioni western in un film dove sin dall’inizio si avverte la sensazione che qualcosa di sconvolgente aleggi e minacci inesplicabilmente la tranquillità della cittadina al centro del racconto. Oltre quella valle, al di là di quei limiti territoriali che confinano la salvezza dal pericolo, una tribù d’indigeni cannibali e dalle sembianze mostruose darà al western la sua inedita sferzata splatter oltrepassando in più modi possibili i confini del genere classico.
Nella cittadina di Bright Hope la speranza è messa in pericolo da una tribù di cannibali
Undici giorni dopo la profanazione di un cimitero indiano, dove il tagliagole Buddy viene brutalmente ucciso da una misteriosa creatura spuntata dalla Valle, il suo collega fuorilegge Purvis viene avvistato dall’anziano vedovo del villaggio Cicoria (Richard Jenkins) che prontamente si prodiga ad avvertire lo sceriffo di Brigh Hope Franklin Hunt (Kurt Russell). All’arrivo nel Saloon lo sceriffo Hunt a seguito di una sparatoria gambizza lo straniero Purvis che, invano, ha tentato la fuga per evitare l’arresto. Febbricitante e con un proiettile in corpo a curare Purvis viene chiamata l’infermiera Samantha (Lili Simmons), moglie del giovane Arthur O’Dwyer (Patrick Wilson) costretto a letto per una ferita alla tibia che gli ha compresso la carriera da capomastro. L’indomani però, dopo uno strano omicidio in una stalla, che ha visto un giovane perdere la vita in condizioni di estrema brutalità, Samantha, Purvis e il giovane vicesceriffo Nick sono scomparsi, sequestrati probabilmente da una tribù di trogloditi che vivono nella cosiddetta Valle dei Famelici, noti per la loro efferatezza, l’incesto e il cannibalismo. Allo sceriffo Hunt, Cicoria, O’Dwyer e il dandy Joe Brooder (Matthew Fox) non resta che mettersi in viaggio oltre la Vallata dove tenteranno disperatamente di salvare i tre dalla tribù di cannibali che non aspetta altro che nuova carne.
Limiti, confini e superamento del genere. Bone Tomahawk è classico e splatter ma non nello stesso momento
Scritto e diretto dallo stesso Zahler, Bone Tomahawk premette sin da subito di rispettare i canoni e le ambientazioni del western: le polverose ambientazioni interne, la minaccia dei pellerossa, la necessità di ristabilire la legge, l’attraversamento a cavallo nella vallata per salvare i più deboli, i valori e le gerarchie. Il regista, tra dialoghi arguti, colonna sonora al minimo e personaggi più meno standardizzati, sembra porre le basi di un omaggio – seppur moderno –, del grande cinema di Ford e Hawks che seppero portare il genere a livelli così alti da diventare manuale del western negli anni avvenire. I non amanti del genere infatti potrebbero facilmente trovare nella prima parte del film un tipo di narrazione dilatata, canonica, dove la struttura portante della legge vs fuorilegge può senza dubbio apparire meno seduttiva. Tuttavia nonostante la convenzionalità, nella prima parte aleggia una vaga aurea misteriosa, riecheggiamenti lontani di creature minacciose che stanno per mettere a repentaglio lo scorrere mite della vita di Bright Hope e dei suoi abitanti.
Una volta attraversata la vallata infatti viene simbolicamente e corporalmente superato quell’invisibile confine fra il noto e l’ignoto e i quattro verranno messi davanti (e così il pubblico che osserva) alla bestialità più cruenta, che sin d’ora si era fatta attendere. Zahler fa dei pellerossa esseri inumani e disumani contemporaneamente, creature simil fantasmagoriche nella loro pelle così bianca da confondersi con le vallate che le abitano diventano parte stessa di un paesaggio inaccessibile e ancestrale. Davanti a quei super uomini (bravissimo Zahler a farceli sembrare avatar, alieni ancestrali, o perfino divinità teriomorfi) si attiva l’istinto di sopravvivenza e il western sulla legge e Dio che avevamo visto sin qui diventa orrore da carneficina così truculento da farci mettere le mani sugli occhi per non vedere troppo, come solo gli horror più riusciti sanno fare. Allora forse, di quell’attesa così (troppo) western ne sarà valsa la pena.