Boxer: recensione del film Netflix

Con Boxe, su Netflix dall'11 settembre 2024, Mitja Okorn passa allo sport-drama e lo fa nella maniera più tradizionale possibile.

Cinema e boxe hanno sempre avuto un feeling particolare, lo dimostrano i tantissimi film prodotti nell’arco di decenni alle diverse latitudini in cui la Settima Arte ha incontrato la “nobile arte”, portando sugli schermi storie ambientate dentro e fuori dal ring. Incontri che anno dopo anno si rinnovano e che da qualche stagione a questa parte hanno trovato spazio anche sulle piattaforme, a cominciare da Netflix che sin dai suoi primi vagiti ha ospitato pellicole o serie incentrate sulla disciplina in questione. Ultima in ordine di tempo a entrare nella famiglia allargata della grande N è stata Boxer di Mitja Okorn, distribuita dal broadcaster a stelle e strisce a partire dall’11 settembre 2024.

Boxer è un prodotto audiovisivo fortemente derivativo e di conseguenza schiavo e incapace di staccarsi dai propri modelli

Boxer recensione cinematographe.it

Al suo quinto lungometraggio, il regista e sceneggiatore sloveno passa allo sport-drama e lo fa con un film che appoggiandosi a temi e stilemi classici del filone in questione racconta la storia di un promettente giovane pugile di nome Jedrzej Czernecki (Eryk Kulm) che teme di ripetere gli errori del padre. Per questo scappa dalla Polonia comunista per inseguire il suo sogno di diventare un grande boxeur. Ma incontra delle difficoltà come immigrato e con solo la moglie al suo fianco, si rende presto conto che la lotta sarà più dura e complicata di quanto pensasse. Dopo mesi di lotta, il pugile di accetta di partecipare a un incontro truccato che cambierà la sua vita per sempre. Come è facile intuire dalla lettura della sinossi e dai suoi sviluppi narrativi e drammaturgici la scrittura dello stesso Okorn non è andata oltre l’ovvio e il già visto, attingendo a piene mani e senza remore da riferimenti e immaginari legati alla vastissima letteratura cinematografica dei film a carattere sportivo e in particolare da quello pugilistico. Inutile stare a qui a elencare titoli, perché sono fin troppo chiari e scontati. Il ché fa di Boxer, indipendentemente dalla vicenda di turno e da chi la anima, un prodotto audiovisivo fortemente derivativo e di conseguenza schiavo e incapace di staccarsi dai propri modelli, o quantomeno di dare qualche pennellata in grado di personalizzare e seminare una parvenza di originalità. Ciò non accade mai e nemmeno se ne percepisce l’intenzione, con l’autore che sia in fase di scrittura che di messa in quadro non fa altro che fare un copia e incolla di situazioni, intrecci e linguaggi che non aggiungono nulla alla causa e rendono il risultato prevedibile.

Perdendosi tra futili e reiterate parentesi, la fruizione di Boxer diventa uno sforzo più che un piacere

Boxer cinematographe.it

Se ci concentriamo sullo script, al netto di dinamiche stereotipate e di personaggi fotocopia, Boxer altro non è che il disegno di una parabola agonistica e umana della quale ormai conosciamo a memoria tutti i passaggi, con tanto di salita, caduta e tentativo di risalita. C’è l’ultimo di turno che nella vita e sul ring vuole diventare qualcuno e per farlo e disposto a tutto. La spinta propulsiva lo porta a perdere pezzi lungo la scalata, compresi gli affetti, lasciandosi inghiottire dalle sabbie mobile dell’autodistruzione. E nel mentre deve affrontare i spettri del passato e fare i conti con una figura paterna scomoda. Insomma nulla che in opere e vicende analoghe nell’arco di decenni di storia del cinema non sia già stato narrato. Se poi il tutto viene spalmato su una timeline che va oltre le due ore, perdendosi tra futili e reiterate parentesi, la fruizione diventa uno sforzo più che un piacere. C’è poco al quale appigliarsi nel corso della visione, con le momenti emotivamente coinvolgenti che si contano davvero sulle dita di una mano. Troppo poco per un film che appartiene a un filone che proprio nel coinvolgimento dovrebbe trovare la sua arma in più. Peccato che questa spari a salve anche quando si tratta di dare una svolta con la regia, quest’ultima priva di guizzi e anch’essa derivativa, con il cineasta che nelle scene sul ring prova, attaccandosi ai pugili, a copiare senza avvicinarsi minimamente all’impatto visivo quanto fatto stilisticamente parlando da Michael Mann in Alì e prima ancora da Martin Scorsese in Toro scatenato. Nonostante siano esempi inarrivabili, figure come Okorn si ostinano alla pari di kamikaze a inseguirli e a tentare di ottenere qualcosa di simile.   

Boxer: valutazione e conclusione   

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Con il suo quinto film, Mitja Okorn passa allo sport-drama e lo fa nella maniera più tradizionale e poco originale possibile, ossia seguendo per filo e per segno lo schema e il modus operandi del filone e rifacendosi a modelli e grandi classici del passato in cui cinema e boxe si sono incontrati sul grande schermo per raccontare la parabola di un pugile. Il ché fa di Boxer un’opera fortemente derivativa sia nella storia che nel modo in cui questa viene narrata. Si assiste a qualcosa di già visto e codificato, che offre al fruitore una vicenda e dei protagonisti del quale conosciamo in larghissimo anticipo pensieri, parole, azioni e omissioni. Ciò rende le due ore abbondanti di visione un noioso e ripetitivo giro sulle giostre che coinvolge ed emoziona solo a piccoli sprazzi. La regia così come la recitazione funzionano a fasi alterne, dimostrando lucidità, piglio, motivazioni e soluzioni degne di nota solo quando si prendono una pausa dall’emulazione e tentano di personalizzare il rispettivo lavoro. Peccato che questo accada solo di rado.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3
Sonoro - 3.5
Emozione - 2

2.8

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