Boy Kills World: recensione del film con Bill Skarsgård
Fra martial art movie e nostalgia videoludica degli anni Ottanta/Novanta, Bill Skarsgård si conferma a suo agio in ruoli fortemente caratterizzati, tipici del cinema di genere.
Dal 27 maggio 2027 è disponibile su Prime Video Boy Kills World, il lungometraggio d’esordio di Moritz Mohr, prodotto da Sam Raimi.
Per il suo primo film da regista, Mohr sceglie di collocarsi nel terreno dell’action comedy, sfruttando il sottogenere del martial art movie ibridato con la distopia. Il protagonista Boy (Bill Skarsgård) è un giovane sordomuto, che, a seguito dell’uccisione della propria famiglia per mano di Hilda Van Der Koy (Famke Janssen), dittatrice di un mondo postapocalittico, viene addestrato nella foresta da un misterioso guerriero, noto come Shaman (Yayan Ruhian). Lo scopo del mentore è quello di fare del ragazzo un’arma vivente, dedita alla distruzione della famiglia Van Der Koy. Così fra programmi televisivi che mettono in scena l’esecuzione dei nemici di stato, una sgangherata resistenza fatta da due disgraziati e scontri in stile boss fight da videogioco picchiaduro , che mettono insieme splatter e slapstick, il protagonista arriva ad avere vendetta e a fare luce sul suo passato.
Gli anni Ottanta/Novanta, fra satira e autorappresentazione
La cifra dell’intera operazione è improntata a una satira che vira verso la parodia. A cominciare dal fatto che lo spettatore è guidato nella storia dalla voce interiore di Boy – interpretata da H. Jon Benjamin. Si tratta di monologhi pulp, che rifanno il verso a quelli degli eroi dei comics milleriani, da Marv a Batman. Questi caratterizzano il protagonista come un giovane uomo che ha costruito la propria identità su un immaginario finzionale specifico. Effettivamente ogni riferimento al passato del ragazzo riguarda il rimpianto di un’infanzia idealizzata, con la sorella e la madre, in cui il protagonista si autorappresenta come il protagonista di una giovinezza stereotipica degli anni Ottanta/primi anni Novanta. Lo vediamo a casa, intento a mangiare cereali con la sorella e a giocare ai videogame in una sala Arcade. Fa spesso riferimenti ai ninja e alle spavalderie dei b-movie action del periodo. L’intera messa in scena cerca di aggiornare questo tipo di immaginario, costruendo per esempio, attraverso la scenografia, un non luogo diviso fra natura selvaggia e urbanizzazione ipertecnologica, simile a quella di pellicole come Cyborg (Pyum, 1989) con protagonista Van Damme o il più noto L’implacabile (Glaser, 1987) con Schwarzenegger.
Si potrebbe sostenere che proprio il concetto di autorappresentazione, soggettiva e collettiva/sociale, sia alla base del lavoro di Mohr. Il regista porta, infatti, avanti un discorso su come l’immaginario pop, derivato in primo luogo dalla cultura televisiva di largo consumo, sia la radice, da un lato, di giovani soggettività fragili incapaci di situarsi nel moderno contesto sociopolitico. Dall’altro, tale immaginario sembra essere la materia stessa con cui il potere economico e politico impone un ordine totalitario, cui i sudditi sono assuefatti. L’identità di questi ultimi è infatti radicata nelle marche dell’industria dello spettacolo, atte a mantenerli tali, mentre le élite al potere, organizzate in un bislacco matriarcato conservatore, perseguono i propri interessi economici (ogni riferimento a eventuali situazioni reali è voluto). Il punto di incontro fra soggettivo e collettivo diventa, in questo modo, la violenza marziale, intesa anch’essa come elemento cardine dell’immaginario pop. Questa, seguendo la tradizione dei kung fu movie è infatti sia appannaggio del potere, sia strumento in grado di emancipare gli oppressi. Nell’immaginario videoludico e cinetelevisivo del periodo a cui il film, ossessivamente, si riferisce – Da Karate Kid (Avildsen, 1984) a Lionheart – Scommessa vincente (Lettich, 1991), passando per i videogame come Street Fighter II (Bison il nemico finale del gioco è una specie di velleitario dittatore) – saper combattere significa poter combattere per la libertà, emancipandosi.
Boy Kills World: valutazione e conclusioni
Purtroppo a fronte di questi spunti interessanti, la scrittura del film, troppo spesso, trasforma gli elementi satirici in pura parodia, rimanendo a livello superficiale nella critica metafilmica all’industria dell’intrattenimento. L’intero assetto filosofico/marziale viene ridotto a stilemi tarantiniani, che privilegiano sequenze di training montage incentrate sulla brutale arte marziale indonesiana silat – non è un caso che Shaman sia interpretato da Yayan Ruhian star di The Raid (Evans, 2011), film che ha contribuito non poco alla diffusione di questo stile di combattimento, nel mainstream hollywoodiano.
Boy Kills World, da un punto di vista tecnico, esaspera l’odierna tendenza action videoludica, costruendo intere sequenze in cui la macchina da presa segue fluidamente e nel dettaglio le varie forme del combattimento, spostandosi come fosse il punto di vista di un ipotetico videogiocatore. A questi momenti il regista alterna inquadrature grandangolari, soggettive irreali e un effervescente uso di CGI, per creare momenti surreali, durante le sequenze più violente, mettendo in pratica la lezione di James Gunn in The Suicade Squad (2021).
In definitiva siamo davanti all’ennesimo dispositivo di intrattenimento nostalgico che cerca di cavalcare gli ultimi aneliti di una generazione di spettatori quarantenni, in cerca di un ritorno impossibile a un’infanzia idilliaca fatta di oggetti di consumo e intrattenimento a buon mercato, mentre i frutti delle politiche economiche neoliberiste sottostanti a quell’immaginario, minacciano di farci sprofondare in nuove guerre, capaci di rendere reali gli incubi distopici di quel periodo.