Bullet Train: recensione del film action con Brad Pitt
Brad Pitt è sul treno più veloce del mondo insieme ai killer più pericolosi del mondo. Bullet Train, dal 25 agosto 2022 nelle sale italiane, corre per il Giappone col suo mix di azione, divertimento e perché no, riflessioni esistenziali.
La prima regola di Bullet Train, regia di David Leitch, in sala in Italia il 25 agosto 2022 per Warner Bros/Sony Pictures Italia, è che non si deve parlare troppo del cast di Bullet Train. Perché questo action movie colorato, violento e parecchio divertente, il regista è lo stesso di Deadpool 2, ci tiene a prendere in contropiede lo spettatore e, inevitabilmente, finisce per essere geloso dei suoi segreti. Detto questo, i nomi di cui si può parlare abbastanza liberamente sono Joey King, Aaron Taylor-Johnson, Bryan Tyree Henry, Andrew Koji, Hiroyuki Sanada, Benito A Martínez Ocasio e, qui non c’è embargo che tenga, la star indiscussa, Brad Pitt. Bisogna conservare l’integrità di alcune sorprese, anticipare troppo sarebbe delittuoso. Anche perché di delitti ce ne sono a sufficienza nella storia.
Bullet Train adatta per il grande schermo il romanzo I sette killer dello Shinkansen di Kōtarō Isaka. Lo Shinkansen è la rete ferroviaria ad altissima velocità inaugurata in Giappone alla fine degli anni ’50, il titolo del film invece fa riferimento ai popolari “treni proiettile” che ci corrono dentro, nel segno di un progresso tecnologico prepotente e stilisticamente molto curato. La storia viaggia lungo la tratta Tokyo-Kyoto, in sala si vedrà chi dovrà accontenarsi della sola andata. Tra le due città una distanza di parecchie centinaia di chilometri. Il punto è che il treno più veloce del mondo può accorciarla, certo, ma non farla sparire del tutto. Fortuna che il cinema, questo tempo generoso e questo spazio limitato, sa metterli a frutto. Come, dipende dal budget. E dal coraggio di una scrittura e di una regia che sappiano lavorare senza paura sui limiti (di spazio, di tempo). Molto dipende dal destino. Ecco, il destino. Tema portante di un film che non si accontenta di superfici laccate e di un senso sanguinolento delle cose. Ma che, anzi, cerca di andare oltre. Senza esagerare, perché la chiave di tutto è sempre e comunque l’emozione.
Bullet Train: un treno veloce, un mucchio di assassini, il destino
Ladybug (Brad Pitt) è l’assassino più sfortunato del mondo. O almeno così si sente, in piena crisi esistenziale, mentre sale sul treno proiettile per Kyoto dopo l’ennesimo ingaggio sbagliato. Stavolta si tratterebbe di una sostituzione, ma questo non garantisce nulla. Perennemente attaccato al telefono a cercare conforto, dettagli e indicazioni da una calda e tranquillizante voce femminile, lei molto famosa ma meglio non spoilerare troppo, cui dipende e non si direbbe soltanto da un punto di vista professionale. Possibile che Ladybug (sarebbe coccinella in inglese) abbia ragione sul proprio conto. Non è un affare semplice, questo del treno. Sia il destino o una volontà più terrena, fatto sta che l’uomo si ritrova circondato dalla pattuglia di killer più pericolosa e divertente del mondo. Quante cose ci sono da fare mentre si sfreccia a velocità pazzesca per il Giappone contemporaneo.
Ladybug ha interesse a mettere le mani su una certa valigetta. La valigetta la custidiscono i gemelli Lemon (Bryan Tyree Henry) e Tangerine (Aaron Taylor-Johnson), occupati anche a fare da baby-sitter al figlio (Logan Lerman) di una leggenda del crimine chiamato Morte Bianca. Non finisce qui. Ci sono anche l’irascibile (giustamente) Benito A Martínez Ocasio, oltre a una pericolosissima Joey King che si traveste da ragazzina per giocare con lo stereotipo e, facendo leva su debolezze/preconcetti/ottusità maschili(ste), mettere tutti nel sacco. Lei è al polo opposto dello spettro rispetto ai lamenti esistenziali di Brad Pitt, crede fermanente nella fortuna e nel senso di un destino da addomesticare una morte dopo l’altra. A cosa punti la ragazza, o i due autoctoni Andrew Koji e Hiroyuki Sanada, a cosa puntino tutti quanti, lo dirà soltanto l’ultima stazione. In un modo o nell’altro, Morte Bianca c’entra.
In realtà, come anticipato in apertura di recensione, le sorprese sono tante ed è meglio frenare un po’ l’ansia da sinossi. Letteralmente non c’è scompartimento che non custodisca qualcosa (o qualcuno) di interessante da portare all’attenzione dello spettatore. Il trucco di Bullet Train è di accumulare stili di recitazione, background, abilità fisiche e pulsioni omicide molto diverse tra loro, per servire un duplice scopo. Da un lato, si tratta di modellare un’azione colorata, frenetica e venata d’umorismo, punteggiata da squarci di violenza talmente esagerati da stemperarne la crudezza in un gioco perverso e tutto sommato inoffensivo. Dall’altro, aprire la porta dell’action a una riflessione esistenziale più articolata, da maneggiare con cura. In fondo, qualunque sia il nome, l’origine, l’attitudine e l’abilità specifica, ciascun killer si confronta con la stessa annosa questione. Quale rapporto instauriamo con il destino, reciproca collaborazione o rassegnata passività? Possibile che fortuna e sfortuna siano solo questione di prospettiva?
Bullet Train è tre film in uno: azione, umorismo, riflessione
David Leitch aveva già avuto modo di mettere alla prova il suo istinto action/comedy scorretto e autoreferenziale con Deadpool 2, probabilmente uno dei più divertenti, se non il più divertente, tentativo di coniugare spettacolarità fumettistica e afflato dissacrante. Bullet Train mette a freno la scorrettezza e partorisce un umorismo più “addomesticato”, comunque efficace. La verità è che il film sceglie di complicare un po’ le cose. Facendo scivolare, accanto a una robusta impronta spettacolare, anche un discorso su paternità, famiglia e sentimenti appena abbozzato ma impossibile da trascurare. Oltre al grande tema esistenziale.
Il destino lavora sui dettagli, una porta che si apre e una che si chiude, le lancette che corrono, un passo nella direzione sbagliata. Sono gli oggetti, le cose, ma anche i caratteri, in Bullet Train, che raccontano qualcosa del grande piano che viene prima di noi e sopra di noi. Una morale della favola, se qualcosa del genere si può estrarre da un proiettile di lamiera che corre impazzito verso una meta che tutti conoscono ma di cui nessuno osa fare il nome a voce alta, che sia bianca o meno sempre morte è, suggerisce che il coraggio e un certo grado di originalità possono aiutare a farla franca un altro giorno. Specie se si lavora insieme.
Bullet Train è azione, sentimento, riflessione esistenziale, il gusto caloroso della fotografia di Jonathan Sela. A tenere tutto insieme, un fondo di autoironia che impone alla storia e allo spettatore di prendere le cose sul serio, ma solo fino a un certo punto. Se semina grandi domande, non cerca grandi risposte. Conosce i suoi limiti, risponde come può alle necessità commerciali, c’è sempre un grande pubblico da non spaventare troppo, quindi meglio fermarsi in tempo. Trae beneficio dalla qualità più che soddisfacente della recitazione generale, in particolare di un Brad Pitt che si diverte a prendersi in giro e a scuotere dalle fondamenta un fascino granitico (ma complicato, sempre). Funziona meno la collezione di flashback esplicativi di cui la storia si serve per “uscire” dal treno e prendere fiato. In generale, una certa ansia di chiarire gli spazi bianchi della narrazione, proprio sul finale, toglie mordente al film. Nel complesso, comunque, più punti a favore che zone d’ombra.