Bye, bye Germany: recensione del film un film dolce-amaro per non dimenticare la Shoah
Un film per riflettere profondamente sulla natura umana e su uno degli eventi più inimmaginabili accaduti nella nostra storia recente, l'Olocausto.
Sam Garbarski dirige Bye, Bye Germany, un film sull’Olocausto che cerca di raccontarci l’orrore vissuto dal popolo ebreo, con grazia e un pizzico di umorismo. David Bermann e un gruppo di amici, tutti sopravvissuti ai campi di concentramento, decidono di mettere da parte dei soldi per andare via, in America, e ricominciare così a vivere. Per farlo, inventano dal nulla, nell’immediato dopoguerra, un fiorente commercio di biancheria per la casa. L’iniziativa sbanca proprio grazie al brillante David la cui famiglia – sterminata – era leader nel settore della vendita di biancheria prima del devastante conflitto. Tuttavia David si ritrova ad essere sospettato di essere stato, nel corso della guerra, quando era nel campo di concentramento, un collaborazionista dei nazisti. E da qui inizia la nostra storia, dal suo racconto dei fatti.
Bye, Bye Germany: un film sulla Shoah narrata in modo inusuale
Bye, bye Germany è un film molto particolare che prova ad unire momenti di ilarità ad attimi di puro pathos, quando i sopravvissuti ricordano le vicende peggiori della loro prigionia. In particolare sono gli eventi vissuti dal protagonista, David Bermann (interpretato da Moritz Bleibtreu) a tenerci incollati allo schermo ma anche, alla fine, a spiazzarci: lui è stato costretto, per potersi salvare la vita, a fare il “giullare di corte” per i nazisti, ad essere allegro e a scherzare quando la situazione avrebbe portato la maggior parte delle persone a crogiolarsi nella più cupa disperazione. E per farlo ha dovuto ingoiare bocconi amari, fare costantemente buon viso a cattivo gioco.
E lo spettatore si trova a riflettere sulla personalità di quest’uomo, uno che ha visto cose innominabili ed è comunque riuscito ad uscirne parzialmente indenne grazie a sagacia, a spirito di sopravvivenza e ad una buona dose di fantasia. Perché è il suo essere sopra le righe, una sorta di affabulatore patentato, a permettergli non solo di rifarsi una vita subito dopo il conflitto, ma anche a fagli passare indenne l’interrogatorio al quale viene sottoposto dagli Alleati dopo la fine della guerra: essendo stato il buffone di corte di Hitler, Bermann si è infatti ritrovato a dover giustificare i suoi documenti firmati dalle SS e noi apprendiamo dei suoi trascorsi di prigionia proprio quando l’uomo si difende di fronte alla soldatessa che ha il compito di gestire l’interrogatorio.
L’intento della pellicola, c’è da dirlo, è lodevole perché prova a spiegare cosa abbia portato alcuni ebrei – ben 4.000, come apprendiamo alla fine della storia – a decidere di restare in Germania, piuttosto che tentare di rifarsi una vita in America. Sono uomini e donne che scelgono di non lasciare il paese che ha ucciso i loro sogni, le loro speranze, le loro famiglie. Sam Garbarski riesce, in parte, a farci capire che queste persone, nonostante non fosse umanamente pensabile l’idea di restare in Germania, sono rimaste per motivi profondamente legati alla natura umana: chi per possibile profitto, chi per opportunismo, chi per attaccamento a una terra che, nonostante gli abbia portato via molto, ha comunque chiamato casa.
La narrazione, dolce-amara, è perfettamente rappresentata nel rapporto che il protagonista intrattiene con la donna che lo interroga ed è quello la chiave per comprendere, forse, il percorso di un uomo che ha deciso di non soccombere a una delle tragedie più incomprensibili che la storia recente ricordi. Lui è uno di quelli che decide, alla fine, di non lasciare la Germania e quindi, di non dirle addio.