Roma FF16 – Caro Evan Hansen: recensione del film con Amy Adams

Evento speciale al Roma FF16 in collaborazione con Alice nella Città, Caro Evan Hansen è l'adattamento del musical omonimo diretto da Stephen Chbosky. Al cinema dal 2 dicembre.

Essere se stessi, in versione interessante. La trincea delle high schools, con le sue dinamiche violente, le gerarchie spietate, la costrizione a dover crescere agli stessi ritmi degli altri, replicarne frettolosamente le esperienze, aggredire il mondo sociale in miniatura subendo passivamente l’ordine imposto dai vertici, è condensata tutta nella fobia sociale di Evan Hansen, protagonista del film Caro Evan Hansen, presentato a Roma nella sedicesima edizione della Festa del Cinema.  Adattamento cinematografico del musical omonimo scritto e composto da Benj Pasek e Justin Paul su libretto di Steven Levenson, Dear Evan Hansen è la trasposizione diretta da Stephen Chbosky (Noi siamo infinito; Wonder), con Ben Platt che riprende il suo ruolo di Broadway accanto ad un cast stellare composto da Julianne Moore, Amy Adams, Amandla Stenberg, Kaytlin Dever e Danny Pino. Il film, in sala dal 2 dicembre, racconta di un liceale affetto da fobia sociale che, dopo il suicidio di un compagno, finisce invischiato in una faccenda più grande di lui. Il malinteso diventa per Evan l’occasione di fare i conti con i propri demoni, con un passato mai del tutto elaborato e asfissianti non detti, costretti a forza tra i denti per rifuggire l’anormalità.

Caro Evan Hansen: Ben Platt e Kaytlin Dever sono Evan e Zoe nel film musical di Stephen Chbosky

Evan Hansen (Ben Platt), adolescente affetto da fobia sociale, torna a scuola dopo l’estate con un braccio rotto, raccontando al suo unico amico (di famiglia, è bene specificarlo) di essere caduto accidentalmente da un albero sul posto di lavoro. La madre (Julianne Moore), operatrice socio-sanitaria e aspirante paralegale, lo convince a seguire un percorso di terapia che possa aiutarlo a vincere le sue ansie, forse dovute alla costante assenza della madre e all’abbandono del padre avvenuto quando era ancora bambino. Come compito assegnato dal terapeuta, Evan deve scrivere una lettera rivolta a se stesso dall’incipit Caro Evan Hansen, oggi sarà una giornata straordinaria perché […], una sorta di incoraggiamento a vivere ogni giorno essendo grati delle piccole conquiste.

Per errore la lettera in cui Evan manifesta tutta la sua disaffezione per la vita, la sua solitudine, il suo disagio emotivo,  finisce nelle mani di Connor Murphy (Colton Ryan), adolescente problematico, reduce da un’esperienza in un centro di riabilitazione, che poco dopo si suicida. Credendo si tratti di una lettera d’addio rivolta al suo unico amico Evan, i coniugi Murphy (Amy Adams e Danny Pino) coinvolgono il ragazzo in una serie di incontri nei quali gli viene chiesto di raccontare la vita segreta che il figlio nascondeva agli occhi degli altri. L’eventualità di trovare un posto in cui sentirsi a casa, amato, tutelato, spinge Evan a farsi narratore di un racconto inventato, di una vita mai vissuta, di un amico mai conosciuto, con un realismo capace di votare l’intero ambiente scolastico alla causa per la riabilitazione di un ragazzo solo frainteso. L’empatia è come un virus, contagia le anime in modo virale offrendo alla solitudine esistenziale il conforto di una mano amica al di là di uno schermo. Possiamo credere ad un racconto che non sia reale, possiamo giustificarne i mezzi se il risultato finale assume una valenza salvifica e un’occasione di supporto nel simile disagio. Fino all’atto finale, in cui lo svelamento della verità diventa bisettrice di punti di vista differenti e strumento della scelta autonoma di chi, implicato nel dramma, reagisce assolvendo secondo la sua misura.

La dignità delle crepe che abitiamo: siamo tutti Atlante dei nostri demoni

A diciotto anni non ci si aspetta da un adolescente che si sballi di Ativan e Zoloft, né che sia costantemente afflitto da ansia e depressione. Il centro della vita di una persona, erroneamente ritratta nel periodo più gioviale e leggero della sua vita, in cui nulla idealmente può andare storto, dovrebbe coincidere con l’imbarazzo di una cotta, con le prime esperienze sessuali da annotare nel margine in alto a destra di un diario ricoperto di scarabocchi, con il ballo a cui si è andati vestiti di tutto punto con un abito che, riesumato nelle foto del ventennio successivo, appare come la scelta più orrenda compiuta in gioventù. La realtà dei fatti è che invece per molti è difficile respirare. Per loro capita frequentemente di non trovare posto in mensa, di occupare l’angolo di un tavolino in fondo vicino al bagno, chiedere scusa in continuazione, comparare ogni centimetro del proprio corpo a quello degli altri e disprezzarlo, controllare spasmodicamente che il proprio nome o la propria faccia non compaiano derisi nella bacheca di un compagno di scuola. Il loro unico tentativo di sopravvivenza consiste nel rimanere anonimi, nel sembrare esattamente come le persone si aspettano, funzionare normalmente. “Ciò che non riusciamo a dire ce lo teniamo dentro, ma non vuol dire che non sia pesante” recita un verso di un brano cantato da Alana, interpretata da una bravissima Amandla Stenberg. Cosa si nasconde realmente tra le crepe che abbiamo, alimentate dalla più conscia incertezza di essere destinati a non fare rumore per il resto della nostra vita. Questa è la più grande afflizione di Evan Hansen, quella che in un certo senso smisurato lo porta a farsi tramite di un disagio emotivo, sentito, compatito e condiviso visceralmente attraverso un racconto fittizio, umano, riabilitativo di qualcuno che non ha mai realmente conosciuto. Secondo il proprio peculiare modo di inventare, Evan ricostruisce una fisionomia, restituisce voce a chi non ha avuto la forza di chiedere aiuto, o di abbandonarsi alle cure di chi, complice, avrebbe voluto farsi carico dei suoi vuoti. Ri-vivere attraverso una storia di seconda mano è per Evan terapia, medicina per l’anima, esercizio d’amore traslato per osmosi sulla sua persona.

Forse, non fosse stato un musical, Caro Evan Hansen sarebbe risultato più lungo e gravoso, ma le promesse vocali recitate con maestria dai suoi performer coinvolgono fino all’ultima nota dell’ultimo brano, attraendo l’acqua salata di chi, simile, conosce bene quel disagio emotivo tradito da una soffocante vena sul collo. A volte è sufficiente che qualcuno ci venga a prendere, che qualcuno accompagni e curi le nostre solitudini. Basterebbe incrociare, al momento giusto, uno sguardo che ci tenda la mano per rialzarci dopo una caduta. Basterebbe, ma a volte non è sufficiente.

Caro Evan Hansen,
oggi ciò che sembrava lontano è vicino.

Lascia che tutto ti accada,
bellezza e terrore.
Si deve sempre andare,
nssun sentire è mai troppo lontano

(R.M. Rilke)

Regia - 3
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 2.5
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 4

3.5