Bifest 2021 – Casablanca Beats: recensione del film di Nabil Ayouch
Dopo l’anteprima mondiale a Cannes 2021 e la presentazione alla kermesse pugliese, l’ultima fatica dietro al macchina da presa del cineasta parigino arriverà nelle sale nostrane con Lucky Red a novembre. Un dramma generazionale in terra marocchina a ritmo di hip hop.
Dalla prestigiosa Croisette all’incantevole cornice del Teatro Petruzzelli. Dal concorso di Cannes 2021 alla sezione Anteprime Internazionali del 12° Bif&st. Scorre lungo i tappeti rossi della kermesse francese e di quella pugliese il percorso festivalierio di Casablanca Beats, l’ultima fatica dietro la macchina da presa di Nabil Ayouch, prossimamente nelle sale nostrane con Lucky Red. Il nuovo film del pluridecorato regista parigino, da anni trasferitosi in Marocco dove vive e lavora tra mille difficoltà nell’industria cinematografica locale, affonda per l’ennesima volta il dito nella piaga di una Società dalla tante contraddizioni, divisa tra tradizioni, mentalità e credenze conservatrici irremovibili e tentativi di apertura verso altro e verso l’Occidente. Per chi ha avuto modo di vedere alcune pellicole che portano la sua firma, a cominciare dal contestatissimo Much Loved per il quale lui e l’intero cast ricevettero minacce di morte che li costrinsero a lasciare il Paese per un lungo periodo, non avrà difficoltà a immaginare con quali ostacoli censori il cinema di Ayouch deve ogni volta confrontarsi e scontrarsi prima, dopo e durante.
Casablanca Beats racconta la ricerca della libertà di essere e di potersi esprimere delle nuove generazioni marocchine
Stavolta il cammino è stato meno ostile e accidentale rispetto al passato, ma comunque complesso e delicato da portare a termine. Si cammina sempre su un terreno minato, dove il rischio di farsi molto male è sempre elevato e concreto. Con Casablanca Beats, l’autore non rinuncia a gettare il sale su ferite ancora aperte e qualche goccia abbondante di benzina su un incendio che non è detto che si riesca a domare. Eppure qualcosa in tal senso si sta provando a fare in questi anni con pellicole come queste che un tempo sarebbe stato persino impossibile pensare e portare sul grande schermo. Il fatto che se ne stia parlando e che esista è già di per sé un segno tangibile che una breccia nelle mura fortificate di una Società mentalmente barricata come quella marocchina si sia aperta. Ed è proprio in quella fessura che la cinepresa di Ayouch si è infilata per raccontare la ricerca spasmodica della libertà di essere e di potersi esprimere delle nuove generazioni marocchine.
In Casablanca Beats la cultura hip hop si trasforma in uno strumento rivoluzionario di comunicazione e rivendicazione
Il testimone oculare di questa “lotta intestina” combattuta da un gruppo di giovani protagonisti a colpi di rime gridate in faccia e di passi di danza tra le aule, i vicoli, le case e le piazze, è l’ex rapper Anas (interpretato dal talentuoso e promettente Anas Basbousi) che in un centro culturale situato in un quartiere operaio di Casablanca prova con tutto se stesso a guidare i suoi studenti lungo la strada della libertà. Lo fa con la cultura hip hop che si trasforma in uno strumento rivoluzionario di comunicazione e rivendicazione, attraverso il quale aspirante ballerini e rapper hanno l’occasione per dire la propria. L’aula diventa un microcosmo dalla quale il pensiero delle nuove generazioni nasce, si alimenta, si struttura e si propaga all’esterno, senza costrizioni e lontano da ideologie e fanatismi.
Ayouch scrive un capitolo di un romanzo di formazione che usa le barre al posto dei dialoghi
Mescolando Saranno famosi a l’Entre les murs di Laurent Cantet, Ayouch scrive un capitolo di un romanzo di formazione che usa le barre al posto dei dialoghi. Non è un’operazione originale, perché oltre confine ha già precedenti, ma l’averlo fatto su suolo marocchino, alla luce del sole, è tutto tranne che semplice e scontato. Il risultato è un ritratto polifonico su una generazione che sta provando a disfarsi dalle “catene”, che ha scelto l’Arte per liberarsi dal peso di certe tradizioni restrittive e per vivere le rispettive passioni. Il racconto palleggia tra le aule del centro culturale, quartier generale di questa pacifica rivolta, e i vicoli degradati della bidonville e del quartiere operaio di Casablanca. La macchina da presa entra nelle vite di alcuni alunni e in quella dell’insegnante come ha fatto Lina Wertmüller nel suo Io speriamo che la cavo, per mostrarci le dinamiche di una lotta disarmata per i diritti e quella quotidiana per la mera sopravvivenza. Non sempre queste due fasi coesistono al meglio, con la seconda che non riesce a tenere il passo della prima. Manca dunque un equilibrio narrativo e drammaturgico tra le due componenti del racconto, un equilibrio che avrebbe garantito al film una maggiore solidità strutturale. Questo non impedisce all’opera di farsi portatrice sana di emozioni e di scene coinvolgenti.