Roma FF18 – Catching Fire: The Story Of Anita Pallenberg – recensione del documentario
Il documentario, diretto da Alexis Bloom e Svetlana Zill con la voce narrante di Scarlett Johansson, presentato alla Festa del Cinema di Roma 2023, accende la scena creando un profondo ponte empatico con la Pallenberg.
Catching Fire: The Story of Anita Pallenberg è il recente documentario diretto in particolare da Alexis Bloom (Divide et impera: La vera storia di Roger Ailes, Bright Lights) e Svetlana Zill (In Restless Dreams: The Music of Paul Simon, The Crime of the Century) incentrato sull’eversiva e rivoluzionaria figura di Anita Pallenberg, attrice, modella e stilista italo-tedesca, musa dei Rolling Stones (è stata moglie di Keith Richards) ed icona di stile e trasgressione.
Un progetto brillante e ardente che si connette fin da subito agli spettatori, raccontando – con un minutaggio eccessivo – quasi tutta la vita dell’attrice, tra epici alti e abissali bassi, tra droga, alcool, ispirazioni e viaggi intorno al mondo. Catching Fire: The Story of Anita Pallenberg, proiettato in anteprima a Cannes 2023 e al BFI London Film Festival, è stato presentato nella 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione Best of 2023.
Catching Fire: un fuoco passionale e pericoloso
Fin dalle prime immagini che vediamo all’interno di Catching Fire: The Story of Anita Pallenberg, riportando alla luce il significato del titolo del film, proprio la figura di Anita Pallenberg viene in qualche modo paragonata ad un fuoco passionale, ardente e pericoloso. Stiamo parlando di una star incredibilmente affascinante, che, con il suo charme, ha rapito tanti e non è un caso che proprio una sua cara amica, ricordandola negli anni della scuola, ha spiegato che sprigionava delle scintille al suo passaggio, quasi fosse una creatura bruciante. Anita era una fiamma difficile da estinguere, senza dubbio, di rara bellezza, ma anche di estrema pericolosità: era una donna forte, scomoda per certi versi, perché in anni non sospetti ricercava un’emancipazione che sembrava così tanto rivoluzionaria e distante, mettendo a tacere inevitabilmente gli uomini.
Un personaggio molto complesso e difficile da raccontare in un documentario tradizionale e forse, proprio per questo motivo, le registe hanno scelto una strada diversa: mettere in primo piano le parole della stessa Anita, tratte da un suo manoscritto originale autobiografico che non ha mai visto la luce, Black Magic (ritrovato, appena dopo la sua morte, dal figlio Marlon Richards). Ecco che quindi la storia dell’attrice è narrata attraverso i suoi stessi pensieri, che sono stati interpretati da Scarlett Johansson. La talentuosa interprete americana, con la sua voce calda e bruciante (che abbiamo già sentito in Her di Spike Jonze), guida il lungometraggio in modo ipnotico e suadente, aprendo le porte, rigide e scostanti, dell’animo di Anita, che così riesce ad entrare in connessione direttamente con gli spettatori.
Proprio per questo motivo, non deve stupire che, all’interno di Catching Fire: The Story of Anita Pallenberg, non ci sono mezzi termini, edulcorazioni o trasparenze. È tutto così diretto, sfrontato, elettrizzante, ma anche inquietante. Tramite i racconti della donna si passa attraverso momenti gloriosi e liberatori, passaggi drammatici e allucinatori, con le esperienze più estreme derivate dai fumi della droga e dell’alcool che sono descritte con una cinica lucidità che mette i brividi. L’aspetto più interessante di questo è che non c’è giudizio morale, pentimento o esaltazione: i frutti proibiti diventano solo un’avventura lontana, devastante e nociva, che purtroppo ha piagato l’esistenza di Anita. Una via di fuga ritenuta necessaria in quel momento, in corrispondenza dei tremendi lutti che l’hanno colpita e che hanno fiaccato ancora di più la sua sensibilità e fragilità interiore.
Dopo l’abisso, però, la rinascita: il film, alla fine, racconta proprio questo, che dalle ceneri più infime e impietose può risalire la Fenice. La musa degli Stones ha visto la morte negli occhi, era persa su una via di non ritorno, ma ha avuto il coraggio di riprendere i suoi passi. Certo, tutte le gravi mancanze della vita (una su tutte, la poca attenzione riservata ai figli Marlon e Angela) non sono state risolte, ma Anita ha ricominciato, riaccendendo quel fuoco che si era spento. Detto questo, purtroppo, gli ultimi anni dell’esistenza della donna, morta, il 13 giugno 2017 a 75 anni, sono raccontati un po’ di fretta, con l’opera che ha dedicato gran parte del tempo al racconto della sua ascesa e ricaduta e poco alla sua “redenzione”.
Catching Fire: un film eccessivo e impegnativo
Proprio la pellicola, sicuramente molto centrata sul personaggio di riferimento, sembra quindi perdere comunque una parte fondamentale, quegli anni così tanto importanti perché pieni di serenità, coraggio e voglia di rinascere. Oltretutto, anche la stessa durata del film è forse un filo eccessiva e, probabilmente, di fronte ad un progetto più asciutto e sintetico, il pubblico avrebbe vissuto ancora di più le esaltanti e infuocate emozioni che passano attraverso la macchina da presa e la narrazione. Detto questo, nonostante le quasi due ore di girato, il risultato è straordinario perché consente di respirare l’umanità e la fragilità di una donna che ha lottato per tutta la sua vita per la sua libertà: un’indipendenza non solo dalla società, dai rigidi schemi del maschilismo, ma anche dall’abuso di sostanze stupefacenti, uno schiavismo che per fortuna ha superato.
Parlando della regia, quello che salta all’occhio è il superbo lavoro di continuità che che la Bloom e la Zill hanno mantenuto per tutto il lungometraggio. Catching Fire, infatti, vede un incastro quasi perfetto di filmati originali e girato, con una cura dietro talmente tanto maniacale che spesso è difficile capire la differenza. Ad inframezzare questi diversi fili della storia, una fotografia che spesso vira su colorazioni acide, confusionarie, con una messa a fuoco che spesso perde la direzione forse proprio per rappresentare i momenti più bui dell’esistenza di Anita o anche per cercare di separare i frammenti reali da quelli artificiali.
Parte del processo emotivo ed empatico del lungometraggio è anche la gestione sublime della musica, con diversi passaggi sono dedicati all’origine di alcuni brani dei Rolling Stones che si sono palesemente ispirati proprio alla figura della Pallenberg. Questi momenti, che potrebbero apparentemente sembrare delle digressioni didattiche, in realtà arricchiscono moltissimo il linguaggio del film che ne esce rinnovato, trovando anche un dinamismo che dà la possibilità alla narrazione di svilupparsi appieno senza punti morti.
D’altronde il rapporto tra Anita Pallenberg e la leggendaria band inglese è uno snodo fondamentale del lungometraggio e non potrebbe essere altrimenti: la sua presenza ha influenzato pesantemente Mick Jagger, Keith Richards e Brian Jones, mentre gli stessi Stones hanno acceso, per certi versi, la vita della donna portandola sul alte vette, ma anche conducendola verso l’obblio della droga. Un interdipendenza centrale che viene messa al centro della scena, rinunciando inevitabilmente ad altri scorci importanti dell’esistenza della protagonista, ma che comunque è sicuramente caratterizzante perché massima espressione della sua parabola distruttiva.
Catching Fire: The Story of Anita Pallenberg, valutazione e conclusione
Una regia che mantiene una precisa coerenza visiva nel cambiare tra girato e filmati originali; una sceneggiatura che lascia qualche spiraglio vuoto della vita di Anita ma che racconta con sensibilità e fragilità l’esistenza dell’attrice; una fotografia che sporca volutamente la camera inframezzando la regia; la voce di Scarlett Johnasson scalda il cuore e accende le emozioni; un sonoro eccellente che domina alcuni passaggi chiave del documentario; un’avventura poetica e non convenzionale dai toni forti e decisi. In conclusione un film pregevolissimo che si lega in modo speciale agli spettatori, coinvolti in un racconto forse un po’ troppo lungo, ma dal grande valore umano.