C’è un lupo nel parco del re: recensione del film di Virginia Nardelli
Il viaggio fantastico di Virginia Nardelli tra dicerie e superstizioni.
Si dice che nel Parco della Favorita, sotto il monte Pellegrino, a Palermo, si aggiri un lupo, nessuno lo ha mai visto davvero eppure c’è chi giura di averlo sentito talvolta ululare nella notte. Una fantasia? Una diceria? La lingua delle superstizioni e delle storie? Per scoprirlo vi invitiamo caldamente a vedere il documentario scritto e diretto da Virginia Nardelli dal titolo C’è un lupo nel parco del re, presentato in prima mondiale alla 39esima edizione del Filmmaker Festival.
C’è un lupo nel parco del re: un viaggio tra fantasia, dicerie e superstizioni
Nonostante si tratti di un saggio di diploma (realizzato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo), il film della regista di Trento dimostra una maturità già acquisita, “merce” rara nei lavori di provenienza accademica, figlia di uno sguardo e di uno stile già strutturati. Qualità, queste, tipiche di chi ha già le idee chiare su cosa vuole fare e su come lo vuole fare. E infatti il risultato al quale abbiamo assistito sullo schermo della kermesse meneghina parla da sé. Il plot alla base del documentario è quello classico di chi fa dell’osservazione il modus operandi. L’autrice però ne prende in prestito le procedure standard, le fa sue per poi personalizzarle, quanto basta per ottenere un diario in prima persona che immerge lo spettatore di turno in un habitat che la macchina da presa esplora da cima a fondo senza abbandonarlo mai. Il tutto attraverso un point of view in soggettiva che mostra, interagisce, cattura e spia per un anno, giorno e notte, tutto quello che accade nelle topografie a cielo aperto e negli anfratti più nascosti.
C’è un lupo nel parco del re: un mosaico corale che il pregevole montaggio compone tassello dopo tassello
La Nardelli penetra nei luoghi, diventa parte attiva o passiva di essi, facendosi presente o invisibili a seconda delle situazioni. Ed è proprio questa sua capacità di diventare parte integrante di quel tessuto geografico ed esistenziale il valore aggiunto e il biglietto da visita dell’opera. Ne scaturisce un mosaico corale che il pregevole montaggio di Benedetta Valabrega compone tassello dopo tassello, scegliendo un baricentro ben preciso (le prostitute che lavorano nel parco) come elemento traghettatore. C’è un lupo nel parco del re è in tal senso un’esplorazione a 360°, che si fa largo tra i rami fitti del fogliame e le cavità nascoste. Lì trovano i propri spazi vitali e ludici ragazzini che giocano a nascondino, da soli o in gruppo, adulti che fanno jogging. Sul bordo della strada una trans aspetta i clienti facendo le parole crociate, poco più là una prostituta gioca coi cani di passaggio.
C’è un lupo nel parco del re: la regista si pone in ascolto, senza provocare se non con la sua presenza gli incontri secondo la tradizione del cinema di osservazione
La notte il paesaggio muta, i toni si fanno più intimi, nel buio risuonano le confidenze, i racconti di vita che arrivano fin lì, le ossessioni di chi vi trova rifugio per le proprie manie. La regista si pone in ascolto, senza provocare se non con la sua presenza gli incontri secondo la tradizione del cinema di osservazione. Abituati alla sua presenza i “personaggi” di questo microcosmo da dove la città appare lontana, quasi un altro mondo, si svelano a poco a poco creando una dimensione in cui la realtà e fantastico si confondono. L’autrice è bravissima a lavorare su questi due registri che si mescolano senza soluzione di continuità sino all’epilogo che darà una risposta definitiva sulla presenza o no del fantomatico lupo. Vedere per credere.
C’è un lupo nel parco del re è stato prodotto dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo. La regista ha curato personalmente le fasi di scrittura, regia, riprese e suono, ad eccezione del montaggio che è stato affidato a Benedetta Valabrega.